Meloni alla prova nel labirinto delle riforme

Salvatore

Vassallo

Per Giorgia Meloni le riforme costituzionali sono importanti su diversi piani. Darebbero corpo a un obiettivo rimasto centrale nei programmi di tutti i partiti della Fiamma (Msi-An-Fdi) e che da decenni ritorna ciclicamente nell’agenda parlamentare senza successo. Riforme ben congegnate potrebbero rendere più efficienti le istituzioni, stabilizzare la dinamica maggioritaria e rafforzare il leader del governo, un ruolo che Meloni (parole sue) spera di ricoprire a lungo. Certificherebbero al tempo stesso l’inclusione di Fratelli d’Italia tra i protagonisti di una nuova fase della Repubblica. La posta è alta, quanto il rischio che l’ambizione faccia perdere il senso della realtà.

La sequenza dei tentativi falliti dimostra che riforme approvate a maggioranza difficilmente sopravvivono alla prova del referendum confermativo.

Per provare ad avviare il dialogo con le opposizioni, Meloni

ha a disposizione due mosse.

La prima è sgombrare il campo dall’idea superficiale che il punto di arrivo debba essere,

in ogni caso, l’elezione diretta

di una carica monocratica, presidente o primo ministro,

a prescindere. La seconda è “partire dal basso”, includendo tra le riforme da condividere l’uscita di province e città metropolitane dal limbo in cui sono rimaste dopo il decreto Salva Italia del 2012. Un limbo che, in omaggio alla riduzione dei costi della politica, ha prodotto uno tra i più grandi sprechi di risorse pubbliche sperimentato da allora ad oggi. Renderebbe così meno ovvia la decisione a cui sarà chiamata Elly Schlein: se seguire l’istinto dei suoi principali alleati (M5s, Cgil) e delle componenti (ex-SeL, Art. 1) che ha cooptato ai vertici del Pd, salendo subito sull’Aventino; oppure se rimanere sulla linea che il Pd e l’Ulivo hanno sempre tenuto, favorevole a considerare riforme della seconda parte della Costituzione che rafforzino la possibilità di attuare i principi enunciati nella prima.