Mercoledì 24 Aprile 2024

Meloni alla Cgil Per la premier gelo in sala, ma il successo è politico "Sono qui per dialogare"

La presidente al congresso del sindacato, Landini invita a non fischiarla. Alla fine i delegati capiscono che il ‘conto’ è in attivo per Palazzo Chigi. "L’abbiamo accreditata, ora come potremo mai darle della fascista?"

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dall’inviato

Pierfrancesco

De Robertis

La politica a volte si annusa, è una questione di aria. Ieri al congresso Cgil di Rimini era tesa, forse anche ostile, quasi stupita di un qualcosa che non si pensava neppure potesse accadere. In ogni caso l’aria delle grandi occasioni, quella che a un certo punto, d’incanto, riesci a sentire se vola una mosca. Il primo a capire che l’aria è strana è Maurizio Landini, che non appena Giorgia Meloni si siede in prima fila, sale sul palco: "Compagni, abbiamo invitato il presidente del consiglio e lei ha avuto la gentilezza di venire a casa nostra, a questo punto se vogliamo che loro ci ascoltino, la dobbiamo far parlare". Silenzio. Si alza Giorgia Meloni e, come previsto, la minoranza della Cgil, polemica verso la scelta del segretario di aver invitato la premier, lascia la sala intonando Bella Ciao. Una trentina di persone, attorniate da una quarantina di fotografi. Gelo, imbarazzo. La presidente del consiglio è ferma, sta muta, si tocca i capelli, non si scompone. Duemila persone col fiato sospeso.

Ma Giorgia Meloni non è una che si imbarazza davanti ai fischi ("è da quando avevo 16 anni che mi fischiano"), ha in precedenza ottenuto da Landini le assicurazioni che le servivano sulla tenuta della platea, sa che alla fine della giornata per lei sarà comunque un successo. Già essere qui è un successo, non resta che passare all’incasso, approfittare dell’occasione, sfruttare un uditorio così politicamente significativo e, grazie alle regole d’ingaggio, così silenzioso. Meglio di così (a sera infatti commenterà "sono soddisfatta").

Quindi si parte, con l’unico linguaggio possibile, quello della realtà. "So che siamo in disaccordo su tutto, so di avere davanti una platea non favorevole". Pare di sentire De Gasperi a Parigi. "Ma è il reciproco ascolto che fa fare a entrambi un passo in avanti". Il riconoscimento, il dialogo come cifra del percorso di vicendevole legittimazione. Ecco il punto politico della giornata, ecco la messa per cui Parigi è valsa sia per Meloni sia per Landini: per il segretario il vedersi accreditati i galloni di interlocutore privilegiato del campo largo de facto, più politico che sindacale e lui è quello che cerca, per Meloni la legittimazione di un ruolo di capo del governo dialogante, con la quale si può discutere, non più la terribile reazionaria che affonda i barconi, e soprattutto un modo per uscire dall’angolo dopo un periodo non facile.

Il nodo è questo, e il resto è cinema, peraltro recitato da ambo le parti con grande maestria. Lei è brava a tenere il punto, a non voler cercare a tutti i costi un applauso che comunque non sarebbe arrivato, ma nello stesso tempo a toccare le corde giuste per inquadrare un minimo di spazio comune e a evitare i terreni minati dove lo scontro – diktat o non diktat del compagno segretario generale – sarebbe stato inevitabile. La premier parla quindi di lavoro, demolisce il reddito di cittadinanza e il salario minimo ma fa anche ricorso al vecchio armamentario "sociale" che è stato, ed è, patrimonio della destra missina. Cita condannandolo l’assalto alla sede della Cgil di Roma (l’unico timido applauso, oltre a quello, ancora più timido, alla fine), cita Argentina Altobelli, una splendida figura di sindacalista nei primi anni del Novecento. Evita l’argomento più divisivo, i migranti, al quale la platea è molto sensibile. La maggior parte dei delegati indossa al braccio il nastro bianco che ricorda i morti di Cutro, buona parte di loro lavora, ha a che fare e si mantiene con i Caf Cgil che con i migranti operano.

La platea è ligia alla consegna del rispetto, quelli sono posti che se il capo dice una cosa, una cosa si fa. I fischi restano in gola. L’unico modo di segnare il dissenso è applaudire chi dissente. Dopo però, quando Meloni è uscita. Ma sono controapplausi di frustrazione. Una volta che lei è andata via inizia infatti a serpeggiare nella sala la sensazione che la comparsata riminese della premier di destra non sia stata a costo zero per il sindacato rosso. Che per non volerle fare una trappola sono finiti loro per caderci. Che nel dare e avere, è lei ad averci guadagnato. Che insomma le hanno fatto un regalo, gratis. In fondo, ragionano al bar, dopo che l’abbiamo invitata a casa nostra e non l’abbiamo fischiata, possiamo adesso darle della fascista? Ci siamo forse fatti fregare?