"Marco Biagi, mio papà. Le sue idee sono vive"

Vent'anni fa il giuslavorista fu ucciso dalle Nuove Br. Il figlio Lorenzo: "Lo Stato lo lasciò solo: vergogna"

Bologna, 15 marzo 2022 - Nel sottotetto del palazzo di via Valdonica la luce entra con la forza delle mattine fredde di primavera e si schianta su una tavola di sughero con le foto sospese: "Passo Giau 1994", un uomo in bicicletta in mezzo a due muri bianchi. Accanto, libri, videocassette, scatoloni, cornici, blocchi degli appunti e un manoscritto, sul tavolo di legno antico: "Libro bianco sulla qualità del lavoro". Anzi, la specifica "sulla qualità del lavoro" è cancellato con una riga e, a penna, appare l’aggiunta "sul mercato del lavoro in Italia". È un tempo sospeso, cristallizzato. Qui, vent’anni fa, aveva scritto il suo ultimo libro Marco Biagi, il giuslavorista ucciso dalle Nuove Brigate Rosse a colpi di pistola proprio sotto la finestra aperta. Qui, vent’anni dopo, siede Lorenzo Biagi, figlio di Marco, anima e volto dell’eredità del padre insieme con la madre Marina e il fratello Francesco. E la famiglia Biagi per la prima volta apre lo studio di Marco a Qn - il Resto del Carlino .

Lorenzo Biagi, siamo nello studio di suo padre: cosa la emoziona di più tra carte, scritti e libri?

"Qui, esattamente dove sono a sedere, stava il mio babbo. Era sempre qui: lavorava e studiava in questa stanza, lo studio e il tavolo sono rimasti gli gli stessi. Non abbiamo toccato nulla. Quand’ero piccolo, venivo spesso a trovarlo mentre lavorava: questo era il suo nido, il suo laboratorio di idee".

Fra le mani lei tiene un manoscritto.

"È l’ultimo di mio padre, il ‘Libro bianco’. Ecco le sue correzioni: le guardo e penso a tutto quello che ha fatto. Il suo obiettivo era un lavoro di qualità".

E quella foto in bici?

"Il segno di una sua grande passione. Soprattutto la bici da corsa e la mountain bike. In uno scatto è con il suo amico Walter, nell’altra con quella da corsa: soprattutto nel weekend, amava fare lunghi giri. Amava lo sport, la montagna, il Bologna, lo stadio".

C’è un disegno sulla scrivania: un quadretto blu con il volto disegnato chiaramente da un bambino.

"L’ho fatto io, nel 1998. Mio padre sedeva dove siedo io in questo momento. E io presi un pennarello azzurro e gli feci un ritratto con gli occhiali, con quella faccia così. Lui lo mise in cornice. È una cosa dolce a cui sono molto affezionato".

Dopo vent’anni cosa resta di più della figura di suo padre?

"Tanti aspetti, ma c’è una cosa in particolare a cui tengo molto. Ovvero il contributo che ha dato al mondo del lavoro e alla sua regolamentazione: le sue idee già dagli anni Novanta erano molto innovative. Guardava avanti: molte dinamiche socio-economiche e lavorative di oggi si stanno rivelando quelle che aveva previsto mio babbo. Poi c’è stato il contributo che ha dato a me e alla mia famiglia: ho il ricordo di un babbo molto affettuoso, dolce, presente che ci voleva un bene dell’anima, ricambiato".

Torniamo a quella sera. Cosa ricorda? Come l’ha elaborata?

"19 marzo 2002. Mi ricordo tutto, anche se sono passati 20 anni, anche se io ne avevo solo 13, anche se ero solo un bambino, anche se era un martedì sera come tanti altri. Scoprire cos’era successo è stata una sensazione tremenda. Mi affacciai dalla finestra, vidi mio fratello che portava la bici di mio padre, mi crollò il mondo addosso. Il babbo era morto. E io quella sera, era la Festa del Papà, lo aspettavo, perché ero andato in gita a Mantova. E alla mattina, le ultime parole che mi aveva detto erano state queste: “Topino fai il bravo, ci vediamo stasera a casa per festeggiare la festa del papà“".

Cosa direbbe a suo padre adesso, se potesse averlo davanti a sé?

"Io sono molto credente, me lo immagino come un angelo che da lassù mi guarda e mi protegge. Gli direi tante cose, di sicuro che è stato un babbo molto presente nonostante tutti gli impegni di lavoro e non solo, gli direi che mi manca da morire, perché crescere senza un papà, senza una figura paterna, non è facile. Ma quello che vorrei dirgli più di tutto è che, nonostante quello che gli è successo, che non ci sia più, io vado sempre avanti, con spirito, con una voglia di vivere molto grande. Ho avuto momenti, e capita anche oggi, di tristezza e malinconia. Ma lui mi ha formato e io sono positivo, guardo sempre il bicchiere mezzo pieno e mai mezzo vuoto".

Spesso racconta ai ragazzini la sua esperienza.

"Parlare ai ragazzi e ai giovani delle scuole è fondamentale, la cosa più importante di tutte. Quando mi sono trovato in situazioni simili ho sempre avuto la massima attenzione e curiosità. E ora mi fa molto piacere che tanti Comuni ricordino mio padre con intitolazioni e cerimonie. Tiene viva la memoria, non solo il ricordo".

Se pensiamo alla lunga trafila giudiziaria, è lampante come lo Stato abbia abbandonato suo padre. Cosa le ha dato più fastidio in tutta la vicenda della mancata scorta?

"Lo Stato ha avuto colpe molto gravi. Colpe, non dimenticanze: non parlo solo dell’ex ministro Scajola e dell’allora capo della polizia De Gennaro (entrambi finiti prescritti, ndr ), ma anche dei questori e prefetti di Modena e Bologna. Questi signori devono fare i conti con la loro coscienza e con i loro errori, la loro colpevolezza: indirettamente hanno fatto sì che mio padre fosse ucciso, lasciandolo senza scorta. E notate bene che non lo dico io. L’ha detto la brigatista pentita Cinzia Banelli: “Se Biagi avesse avuto la scorta, noi non avremmo mai agito. Non saremmo stati in grado di ucciderlo, non eravamo esperti di lotta armata“. Il comportamento dello Stato, insomma, è stato vergognoso. È un fatto vergognoso: non trovo altro aggettivo. Vergognoso".