Davide Nitrosi Trent’anni fa con Mani Pulite si è chiuso un capitolo della storia politica italiana che sarebbe terminato da solo (magari in modo meno traumatico), come conseguenza della fine dei blocchi Est-Ovest e della crisi del comunismo. È cambiato un assetto politico, ma non l’assetto culturale e profondo del sistema italiano. La corruzione, al centro della rete di inchieste milanesi e poi di tante altre procure, non era il male circoscritto della Prima repubblica. Gli italiani lo hanno capito, dopo tanti anni. E sono passati da un opposto all’altro, dall’indignazione totale alla rassegnazione amorfa. All’inizio l’ubriacatura provocata dal crollo del sistema era forse inevitabile. La rabbia verso i partiti, la gogna pubblica per i politici corrotti, le manette ostentate, la condanna elettorale di Dc, Psi, Pri, Psdi e Pli, sono state reazioni di pancia, e non segnali di una trasformazione dell’identità italiana, tanto meno della nascita di un nuovo senso civico. Mani pulite non si è trasformata in una lezione in grado di cambiare la società. Perché non può essere l’azione penale – e tanto meno i lanci di monetine – a insegnare l’educazione civica a un Paese. Se non basta gridare onestà onesta per costruire uno Stato democratico e "onesto", non bastano neppure le condanne e le inchieste (seppure necessarie). È questa la realistica lezione da trarre. Il cittadino responsabile si educa a scuola, non nei tribunali. Lo spirito della democrazia si cementa curando le necrosi nelle istituzioni, senza però delegittimare queste istituzioni. Giustizia senza giustizialismo, altrimenti si rischia di scivolare volentieri nello squadrismo. ...
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