Mercoledì 24 Aprile 2024

Mai più Mani Pulite: le inchieste non sono film

Nuovo regolamento per le Procure. "Basta fascicoli con nomi roboanti, diventano una sentenza di colpevolezza anticipata"

Immagine storica: il pool di Milano ai tempi di Mani Pulite

Immagine storica: il pool di Milano ai tempi di Mani Pulite

 

"È fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza".

Davanti a parole così non può che scattare la standing ovation. Perché i 92 caratteri che le compongono sono altrettanti colpi di piccone sul marketing giudiziario che ha avvelenato la vita pubblica italiana (e molte vite private) dal 1992 in poi.

Da quando, cioè, dopo l’exploit mediatico di “Mani Pulite“, taluni pubblici ministeri poveri di scrupoli ma ricchi di ambizioni hanno preso l’abitudine di "mascariare", verbo del dialetto siciliano che, letteralmente, significa "tingere con il carbone" e, in senso figurato, rovinare la reputazione. Solo un tocco, una macchia nera, appunto. E sei fregato.

Ora basta. Basta perché quei 92, meravigliosi, caratteri sono un piccolo ma prezioso comma all’articolo 3 del decreto legislativo inviato alle camere da Marta Cartabia, 58 anni, ministro della Giustizia, per adeguare la macchina giudiziaria alla Direttiva dell’Unione Europea sul "rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza". Per l’Italia, una rivoluzione culturale.

Da noi, infatti, in barba all’articolo 27 della Costituzione ("L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva"), vige da almeno un trentennio la presunzione di colpevolezza.

Un veleno che sgorga dagli uffici di alcune procure, inzuppa i media e, quasi sempre, evapora nelle aule di giustizia, con sentenze di assoluzione che i manettari in toga e in redazione faticano a digerire e l’opinione pubblica spesso ignora, perché lo spazio dato al lieto fine è inversamente proporzionale a quello riservato all’angosciante inizio.

Ci stiamo avviando, quindi, verso il sole del garantismo, dopo la lunga notte del giustizialismo, con inchieste che già a partire dal nome, appunto, suonavano come una sentenza inappellabile: “Ecoboss“ (Napoli, 2008), “Pelle sporca“ (Vicenza, 2009), “Metastasi“ (Milano, 2009), “Bocca di rosa“ (Messina, 2012), “Falsa politica“ (Reggio Calabria, 2012), “Mafia Capitale“ (Roma, 2014), “Angeli e Demoni“ (Reggio Emilia, 2018), “Appaltopoli“ (Teramo, 2018), “Farmabusiness“ (Reggio Calabria, 2020), “Petrolmafia Spa“ (Reggio Calabria, 2021), “Sotto Scacco“ (Catania, 2021), “Waterloo“ (Agrigento, 2021).

Sconvolgente, vero? E ancora manca nell’elenco la collezione, chiamiamola così, di Henry John Woodcock, 54 anni, sostituto procuratore della Repubblica presso la Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Napoli, titolare delle inchieste “Vipgate“ (2003), “Iene 2“ (2004), “Somaliagate“ (2006), “Savoiagate“ (2006), “Vallettopoli“ (2006), “P4“ (2011), “Last Door“ (2014). Stop.

Raccontare in dettaglio nomi, cognomi, condanne e assoluzioni di tutte le operazioni giudiziarie che abbiamo elencato richiederebbe uno spazio gigantesco.

Limitiamoci a dire che molte si sono sgonfiate come soufflés mal riusciti. Alcune in poche settimane.

Altre dopo anni di martirio per imputati che hanno vissuto da presunti colpevoli e non hanno nemmeno più avuto la forza di gioire per l’assoluzione.

Chiosa Enrico Costa, 51 anni, avvocato, deputato di Azione, viceministro della Giustizia nel 2014 e poi ministro per gli Affari regionali dal 2016 al 2017 nei governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni: "Una scelta accurata quella dei nomi assegnati alle indagini, brevi il giusto per i titoli dei giornali, ficcanti come lame, marchi indelebili su chi ne è coinvolto, assolto o condannato non importa. Chiunque si trovi sulla traiettoria del marketing giudiziario, perché di questo si tratta, è bollato per sempre. Perché il nome dell’inchiesta, sapientemente impastato con la conferenza stampa, con i trailer, con le intercettazioni, con i titoli di giornali, con il frullatore della rete, non lascia scampo. E sopravvive agli eventi processuali".

"Le sentenze? – continua Costa – Buone per il casellario, non certo per ribaltare fiumi di inchiostro. Un marketing non solo tollerato, non solo a opera di pochi, ma sistematico". Ora, finalmente, civilmente, si volta pagina.