Ma nel mondo è lo spumante a fare sfracelli

Lorenzo

Frassoldati

Se la Russia è il quarto consumatore di bollicine italiane dopo Germania, Usa e Gran Bretagna, bisogna ringraziare la più grande storia di successo del vino italiano nel mondo degli ultimi vent’anni, ossia il Prosecco, nelle due versioni Doc (500 milioni di bottiglie tra Veneto e Friuli) e Docg Conegliano Valdobbiadene (100 milioni). Se depuriamo il nostro export dal ‘fenomeno Prosecco’, ci dovremmo accontentare di un incremento annuo di meno dell’1 per cento. E sta arrivando un nuovo prodotto che minaccia di fare sfracelli: il prosecco Doc Rosè (già sta sugli 80 milioni di bottiglie). Ma non è solo la voglia di bollicine e di far festa (in Russia va molto anche l’Asti Spumante e, salendo di qualità, il Moscato d’Asti Docg) a decretare il successo globale del vino ricavato dall’uva Glera, tradizione autoctona della Marca trevigiana.

C’è stata anche una crescita qualitativa del prodotto, una segmentazione che ha sostenuto il prezzo medio sui mercati internazionali. Una linea, quella della qualità, da cui non si può transigere perché, come ha affermato il professor Attilio Scienza al recente evento Spumantitalia, "va salvaguardata l’identità dei territori, nel rispetto dei disciplinari e delle diverse varietà, perché non tutti i vitigni hanno la vocazione alle bollicine". Oggi la spumantistica italiana è avviata a raggiungere un miliardo di bottiglie entro il prossimo triennio, il 33% in più rispetto all’attuale produzione di 750 milioni di pezzi. E nel mondo lo spumante italiano si chiama Prosecco.