Mercoledì 24 Aprile 2024

Ma gli oppositori possono essere buoni reporter

Massimo

Donelli

Tre giorni. Poi, quando il portellone dell’ultimo aereo in decollo da Kabul sarà chiuso alle spalle dell’ultimo soldato americano, l’Afghanistan precipiterà nel buio mediatico. Niente più immagini, voci, suoni: nulla sapremo dell’Emirato islamico al di fuori di ciò che i talebani vorranno farci sapere. E che nessun giornalista potrà mai verificare. Sta per riproporsi, cioè, la situazione vissuta dal 2014 al 2019, gli anni terribili dell’Islamic State of Iraq and Syria (Isis), quando sui nostri schermi – Tv, Pc, smartphone – arrivavano solo contenuti funzionali al califfo Abu Bakr al-Baghdadi (1971-2019): decapitazioni, distruzioni di siti archeologici, videomessaggi di attentatori suicidi.

Tutto veicolato attraverso i social media e disponibile in pochi secondi nel mondo intero. Per accreditare un’immagine di forza. Attrarre nuovi combattenti (40mila foreign fighters da 80 Paesi; e fra loro almeno 5-6mila europei). Seminare la paura nel mondo libero. Lo stesso, fra 72 ore, succederà in Afghanistan. E possiamo solo sperare che a Kabul, Kandahar, Herat emergano, come accadde in Siria, i mediattivisti, oppositori che, a rischio della vita, diventano reporter clandestini. Attenzione, però: anche la loro sarà, inevitabilmente, una verità di parte. Da esaminare con cura. Accertandosi, prima di tutto, che non si tratti di fake news fatte filtrare dal regime per poi delegittimare i media occidentali. La guerra digitale, infatti, non è meno insidiosa di quella combattuta con bombe e pallottole…