
"Nessun urbanista ha la bacchetta magica. E nessun progetto di riqualificazione urbana può funzionare se prima non rinasce – o non si afferma – un sentimento di comunità". Enzo Scandurra, 76 anni, già ordinario di Urbanistica alla Sapienza di Roma e saggista affezionato alle trasformazioni delle città, sposa "l’approccio biopolitico del filosofo Michel Foucault".
In parole semplici?
"Nei quartieri ghetto l’area d’incontro tra potere e sfera della vita va studiata minuziosamente, perché senza queste esatte cognizioni anche il progetto più entusiasmante può non riuscire o fallire. Vedi – esempio per tutti – la nascita del quartiere La Martella di Matera. Quando negli anni ‘50 apparve un orrore che le persone vivessero ancora nei Sassi, ci fu la mobilitazione multidisciplinare di tante intelligenze. Parteciparono al progetto personaggi come De Martino o Ferrarotti. Ma alla fine La Martella non fu un successo".
Professore, al Parco Verde di Caivano, un urbanista da dove dovrebbe cominciare?
"Dalla mossa più semplice: prenderci il domicilio e abitarci almeno per un anno in un’équipe interdisciplinare con antropologi, sociologi e psicologi. L’urbanista dovrebbe parlare con tutti i cittadini e i comitati. E capire quali sono le priorità che si fanno strada dal basso mentre lo Stato, in parallelo, si impegna a garantire il recupero di un accettabile livello di sicurezza e legalità. Solo a quel punto, dopo un effettivo ascolto, sarebbe possibile realizzare una sintesi".
Rischioso in un’area degradata gestita e dominata dai clan.
"Non sto dicendo che l’urbanista debba accogliere in toto le richieste che arrivano dai residenti, ma considerarle seriamente sì. Anche perché questo lavoro di ascolto, se condotto in contemporanea a quello sulla legalità, concorrerebbe a rigenerare il tessuto comunitario".
Le operazioni di "rammendo e rigenerazione urbana delle periferie" teorizzata e praticata da Renzo Piano possono accelerare l’uscita dalle emergenze?
"Rispetto molto il lavoro di Piano, che generosamente in questi anni ha prodotto interventi spot in molte aree degradate, ma penso che una situazione come quella di Caivano meriterebbe un intervento complessivo".
Il sentimento di comunità a Parco Verde già esiste anche per via dello storico bacino di terremotati napoletani del 1980. Solo che è una comunità chiusa e controllata.
"Questo accade perché il livello dei servizi e dei collegamenti è talmente basso da sfavorire o impedire i contatti con l’esterno. In Danimarca, dove la battaglia per riqualificare i ghetti urbani è molto seria, metropolitana e collegamenti sono il primo strumento di rigenerazione. Si parte da quello. Per non parlare dei materiali utilizzati per le abitazioni popolari. La qualità costruttiva deve essere un prerequisito".
Al Parco Verde, invece, tutto lascia a desiderare. In certi casi non sarebbe meglio abbattere e ricostruire? Anche un pezzo alla volta...
"Inattuabile. Non troverà mai nessuno che lasci una casa popolare. La paura di perderla è troppa. E lo stiamo vedendo proprio a Tor Bella Monaca, area romana di spaccio: con i soldi del Pnrr sarebbe possibile restaurare un po’ di torri, ma nessuno vuole uscire di casa".
Il racket delle occupazioni abusive è parte del problema?
"Sì, perché in quartieri difficili amplifica il potere dei clan e frena dinamiche alternative. Lo Stato sulle occupazioni abusive dovrebbe fare molto di più. Ha lasciato correre. E adesso è tutto più complicato".
Ormai nelle città prevale l’effetto bolla?
"Tante comunità distinte. Senza più nulla che le unifichi".