Giovedì 25 Aprile 2024

Lunga vita ai telefoni e ai tablet La parola d’ordine ora è riparare

In arrivo le regole Ue per ridurre spreco e inquinamento. Ma l’incognita è l’accessibilità dei pezzi di ricambio

di Lorenzo

Guadagnucci

Rifiuti elettrici ed elettronici (i cosiddetti Raee): 53,6 milioni di tonnellate all’anno (dato 2019), con previsione di un ulteriore aumento del 50% entro la fine del decennio; capacità di riciclo su scala globale: 20% scarso. Litio, rame, nichel, cobalto e in generale “terre rare”: sotto pressione e oggetto di infinite liti, competizioni e anche guerre, per non parlare della loro carica inquinante. Obsolescenza programmata: tecnica di produzione e consumo compulsivo ormai incompatibile con una decente gestione della risorse disponibili sul pianeta.

Potremmo continuare con le definizioni, parlando per esempio di batterie e di marketing, di smaltimento dei rifiuti e tutela ambientale, ma quel che conta è che dopo decenni di deregulation e crescita smisurata (nel senso di grande ma anche priva di senso della misura) delle produzioni, anche l’elettronica di consumo si prepara a entrare nell’avventuroso e misterioso mondo che ruota attorno a parole chiave finora sconosciute: limite, durabilità, riparazione. Sì, riparazione, perché gli oggetti tecnologici meno riparati (e meno riparabili) del nostro tempo, ossia smartphone e tablet, stanno entrando in una logica che per anni le case produttrici hanno rifiutato, giocando tutte le loro carte sul tavolo del massimo consumo e della breve durata.

Apple, Google, Samsung e via via tutti i maggiori produttori hanno avviato o almeno annunciato la riparabilità dei propri prodotti, non solo nei loro costosi laboratori, ma anche a opera di tecnici esterni e degli stessi utenti. Una rivoluzione, ancora da mettere in pratica ma ormai ineludibile: la pressione si è fatta troppo forte e policentrica e non era più possibile fare finta di niente e proseguire col business as usual. Le aziende hanno quindi giocato d’anticipo; seguiranno leggi ad hoc: l’Unione europea sta preparando la sua e negli Usa è in elaborazione un “Repair Act”. La Francia già impone, dal 1° gennaio 2021, di specificare su smartphone, tablet e altri prodotti un “indice di riparabilità”, in una scala che va da 1 a 10: più alto è il voto, più riparabile è l’oggetto; l’idea è di offrire al consumatore un ulteriore elemento di valutazione al momento dell’acquisto.

La nuova parola d’ordine, dunque, è: riparare. Ha qualcosa d’antico, ma è frutto di tendenze nuove: gruppi di utenti che organizzano laboratori di riparazione comunitaria; tecnici indipendenti (spesso, chissà perché, di nazionalità cinese) che gestiscono laboratori non ufficiali e anche piccole catene specializzate. La Commissione europea, sulla scorta del regolamento sull’Ecodesign del 2019 limitato agli elettrodomestici, sta discutendo una nuova normativa sulla riparabilità di smartphone e tablet (i computer per il momento restano esclusi).

L’obiettivo dichiarato è allungare la vita dei prodotti ben oltre i due-tre anni attuali e ridurre drasticamente i consumi di risorse e la massa dei rifiuti elettronici: la media del continente europeo è oggi di 16,2 chili pro capite all’anno; media che sale di un chilo nel caso dell’Italia. Le aziende sono disposte a cambiare qualcosa ma cercheranno di limitare le novità, dal basso sale invece la richiesta di un effettivo diritto alla riparazione.

La nuova normativa dovrà dettare regole precise sui pezzi di ricambio ma anche sugli assemblaggi: le varie parti da sostituire devono essere accessibili e smontabili, altrimenti la riparabilità sarà più teorica che pratica. A giudicare dai dati raccolti da Open Repair Alliance e diffusi da The Restart Project – una rete europea che unisce laboratori civici di riparazione – ci sarà molto da lavorare, visto che solo la metà dei tentativi di riparazione di comunità di smartphone è andata a buon fine, percentuale che scende al 42% nel caso dei tablet.

La partita, a questo punto, si gioca sul rigore e la tassatività delle norme: il campo di gioco, in buona parte, è al riparo da occhi indiscreti, nelle sessioni di lavoro fra decisori politici e lobbisti, ma le procedure democratiche garantiscono uno spazio anche ai cittadini organizzati e all’opinione pubblica. La sfida insomma è aperta.