Giovedì 18 Aprile 2024

Luca Manfredi "Io, mio papà Nino e l’ultima foto con Totò prima che morisse"

"Andai a trovarlo sul set e con lui c’era il principe della risata che quella sera stessa fu stroncato da un infarto. Chi era mio padre? Un umile che mi chiese una parte nel mio film"

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Giovanni

Bogani

Mio padre era un perfezionista, uno che non si accontentava mai. Quando era in casa, spariva nella sua stanza, a leggere copioni, a preparare i suoi personaggi. Nulla era lasciato al caso, nelle sue interpretazioni".

Come faceva a raggiungere suo padre, a stare con lui?

"Dovevo andare sul set. Dovevo trovarlo lì, mentre lavorava. Ricordo ancora una giornata, era il 1967, io ero molto piccolo. Papà era con Totò, gli fecero una fotografia insieme. Totò si proteggeva dalla luce del sole con gli occhiali neri e un ombrello: era quasi cieco, le luci del cinema lo avevano praticamente accecato. Beh, quella foto di loro due insieme, che io vidi scattare quel giorno, è anche l’ultima di Totò. Quella sera un infarto se lo portò via".

Luca Manfredi racconta suo padre Nino. Disincanto e amarezza indossate con un sorriso. Ironia venata di scetticismo. Come se non ci fosse modo di fregarla, la vita. Racconta il cinema italiano, di cui anche lui è parte, come regista, sceneggiatore, produttore. Attore, no. Non ha mai voluto fare l’attore.

Il ricordo più struggente?

"Ricordo quando io stavo cominciando ad affermarmi come regista. Mio padre venne da me, l’immancabile sigaretta in mano. ‘Luca, che fai?’. Io: ‘Sto finendo di scrivere una sceneggiatura per un film che devo dirigere’. E lui, con un’umiltà che mi strappa il cuore ancora oggi, quando ci penso, si ferma un attimo e mi fa: ‘Che, mica ci sarebbe una particina anche per me?’".

Una particina anche per lui?

"Per lui, che era uno dei più grandi attori della commedia all’italiana, che aveva dato volto, cuore, luci e ombre alle illusioni e disillusioni di tanti personaggi. Così, mi resi conto che quello dell’attore è un mestiere precario, appeso a un filo".

Luca, suo padre Nino è nato 101 anni fa. Lei gli ha dedicato un film per la tv, “In arte Nino“, un bellissimo documentario – “Uno, nessuno, cento Nino“ – e un libro, “Un friccico ner core. I cento volti di mio padre“. Ma la cultura italiana lo ricorda con la giusta intensità, con la giusta attenzione? "Questo è un paese che dimentica in fretta. Non soltanto mio padre, ma anche altri grandissimi: i Mastroianni, Tognazzi, Gassman, Sordi. Quando ho fatto il film su Alberto Sordi, “Permette? Alberto Sordi“, siamo andati a chiedere ai ragazzi delle scuole chi fosse l’Albertone nazionale. Quasi tutti rispondevano: Alberto Tomba. Qualcuno Alberto Angela. Pochissimi nominavano Alberto Sordi".

Riguardo al nome di suo padre, c’è stata anche una recente polemica. Relativa all’intitolazione di un teatro…

"Nel paese dove Nino è nato, Castro dei Volsci, poche migliaia di abitanti in Ciociaria, hanno intitolato il teatro comunale a Vittorio Gassman. Non ho niente contro Gassman, fra l’altro Nino e Vittorio erano amici, hanno fatto più di un film insieme: ma che nel suo paese natale, nel 2002, si sia intitolato il teatro ad un attore immenso, sì, ma genovese, mi suonava assurdo. Mi sembrava giusto tutelare la memoria di mio padre".

Come è andata a finire?

"Il sindaco mi ha chiamato e abbiamo deciso che si farà una statua di Nino, con l’immagine finale del film “Pane e cioccolata“. Quell’immagine in cui Nino esce dalla galleria ferroviaria, a mezza strada fra Svizzera e Italia. In piedi, a grandezza naturale, con un pezzo di binario che esce dalla statua. La creerà uno scultore bravissimo, Davide Dormino, che ha esposto in tutte le capitali del mondo".

Quel film, “Pane e cioccolata“, è uno dei più belli interpretati da suo padre. Proprio oggi cade il centenario del suo regista, Franco Brusati. Come fu il loro rapporto sul set?

"Brusati era un genio, ma aristocratico: non portava mai le scarpe nuove. Prima, le faceva ‘rodare’ dal maggiordomo. Un uomo così non poteva capire la lotta per sopravvivere, la fame, la tigna dell’emigrante. Mio padre sì. Veniva dalla Ciociaria. Terra di migranti. Suo nonno Romeo era stato per 30 anni minatore in America".

Erano gli anni in cui i migranti eravamo noi.

"E mio padre capiva quel dolore e restituì un personaggio memorabile. Giovanni Garofoli, l’immigrato in Svizzera che fa mille mestieri rimane nella storia del cinema. La scena in cui vede al bar una partita di calcio della Nazionale, dopo essersi tinto i capelli di biondo, fingendosi svizzero, per poi lasciar cadere la ‘maschera’ ed esultare come un pazzo al gol dell’Italia è una scena fantastica. Racconta più di mille parole".

Com’era papà Nino?

"Severo. Suo padre, Giovanni, maresciallo di polizia, diceva ‘I bambini vanno accarezzati soltanto quando dormono’. E anche lui era un po’ così: era una forma di pudore, che gli impediva di essere troppo espansivo. Poi, verso la fine, i ruoli si sono invertiti: lui è diventato un po’ mio figlio, e io suo padre".

Che cosa le è rimasto di più, nella memoria, dell’arte di suo padre?

"Quel modo di dire le cose tristi con un sorriso, e di dire seriamente le cose allegre. Gli italiani lo hanno amato moltissimo, perché lui non ha mai dimenticato le sue origini, non ha mai dimenticato di essere nato povero. Non ha mai dimenticato di essere uno di loro".