L’outsider divenuta leader Dal Msi a Palazzo Chigi: la scalata di Giorgia

La Meloni ha la cultura della destra giovanile, più post-missina che post-fascista. I suoi valori: comunità, famiglia e l’idea di uno Stato (sociale) centralista

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di Pierfrancesco

De Robertis

Comunque vada a finire, per la Destra italiana sarà un giorno storico. Una sua esponente sulle soglie, o dentro, palazzo Chigi porta a compimento un percorso iniziato molti anni fa, e per certi versi rende l’Italia un Paese "normale", come fu per lo speculare ingresso a palazzo Chigi di Massimo D’Alema o al Quirinale di Giorgio Napolitano. Certo, l’effetto è diverso per molti perché almeno in Italia l’uomo (o la donna) nero fa più effetto dell’uomo rosso, ma non tutto è come appare.

Sbagliano infatti quelli che definiscono Giorgia Meloni una post-fascista. Non per le abiure su Mussolini che alcuni le contestano come troppo timide, o troppo ambigue. In fondo siamo tutti post di qualcosa, e ci sarà stato anche un momento in cui la Meloni avrà pensato del Duce cose non peggiori del giudizio che ebbe Napolitano dei carri armati in Ungheria o D’Alema dell’Unione sovietica. La realtà è fluida. Giorgia non è post-fascista neppure per la giovane età, e anche qui basta andare ogni 28 ottobre a Predappio per vedere sfilare gente molto più acerba di lei. No, no, Giorgia più che del post-fascismo – che pure esiste – è figlia di quella cultura missina che annegò nel reducismo di Salò le frustrazioni dei padri ma che gemmò nei figli un clima intellettuale che con l’orbace e il manganello non aveva niente a che vedere.

Era la cultura dei movimenti giovanili della destra degli anni Settanta, quelli che si fronteggiarono furiosamente nelle aule universitarie con la sinistra uscita invece trionfante dal post-Sessantotto. E nel mondo missino, che già di per sé rappresentò una specificità nel panorama politico italiano, Giorgia fece parte, anzi è figlia diretta, della famosa, per certi aspetti mitica, sezione romana di Colle Oppio, additata con invidia o con sospetto dal resto dei giovani di destra. Un’enclave dell’enclave, con logiche, gesti, rituali e riferimenti propri, per alcuni molto settari, antagonisti in primis verso il resto della Destra, ma che da questa unione traevano la forza per confrontarsi con un mondo che ritenevano ostile. E che alla fine del salmo sviluppò in molti un istinto "minoritario", tipico di chi si definisce in virtù di una contrapposizione.

Fu la prima destra giovanile che tentò di immaginare una metapoietica che andasse oltre al fascismo e ai suoi orpelli, e che si potesse rivendicare nelle assemblee studentesche senza i distintivi di Mussolini e i fez dei nostalgici. Fu la destra dei celebri "Campi Hobbit", che nel romance nordico costruì i propri miti. Primo tra tutti Tolkien. Quello di cui Giorgia Meloni adesso si dice fanatica lettrice, e che Pino Insegno giovedì scorso ha citato dal palco di piazza del Popolo per chiudere la manifestazione del centrodestra. "Verrà il giorno della sconfitta ma non sarà questo giorno", è stata la citazione tolkieniana che anche ieri la Meloni ha richiamato. L’universo tolkieniano è così utile per comprendere il mondo ideale dal quale la "vera" Giorgia affonda le radici. Le radici, altro topos tolkieniano: "le radici più profonde non gelano mai" era uno dei motti più sentiti nei Campi Hobbit. È un mondo che faceva della comunità il proprio punto di riferimento, e dagli antichi valori traeva ispirazione: l’eterna lotta tra il Bene e il Male, il bene che è di pochi, umili, puri, circondati, il Male che è dei più.

È proprio negli "antichi valori" che quel milieu missino si costruisce, e proprio ai valori la Meloni concede il diritto di precedenza. Non sarà un caso se Giorgia ne fa una merce da comizio come mai nessuno prima di lei ("sono una donna, sono cristiana, sono una mamma") e sui valori morali porta l’attacco a una sinistra che invece i valori li ha ridotti, secondo lei, a diritti prêt-à-porter. Ogni riferimento alla comunità Lgbt non è casuale. Giorgia gioca la carta anche in campagna elettorale, anche all’estero (il comizio di Vox), sa di attirarsi l’accusa di clerico-fascista ma pensa così di parlare al proprio mondo. Certo, per Giorgia non c’è stato etico, non si arriva a quello, ma c’è uno Stato che tutela alcuni valori.

Ecco, lo Stato, l’altro passaggio fondamentale nell’idea meloniana del rapporto con il cittadino, e che la differisce dalle altre culture della destra, in primis quella liberale. Per la destra della Meloni lo Stato ha una forte caratura sociale, è un calibratore degli interessi della persona (non si parla di individuo, termine troppo liberista), e il primato è dello Stato prima che dell’individuo. È uno Stato centralista, uno stato che si riconduce alla comunità (Colle Oppio, Tolkien), cui spetta la primazia. Comunità nazionale, e ciò che è oltre la patria è guardato con sospetto.

Adesso il percorso di Giorgia subisce i contorcimenti tipici di chi si appresta a entrare nella stanza dei bottoni e deve fare i conti con molte realtà (gli americani, l’Unione europea, i mercati), ma che a suo modo è lineare. Dai Campi Hobbit, ad Alleanza Nazionale, al Pdl e poi, rotto il patto con Berlusconi, di nuovo con un partito di destra, Fratelli d’Italia. Chissà se l’allora "idea" di Ignazio La Russa, Maurizio Cesaro, Guido Crosetto e Fabio Rampelli, di designare una giovane di appena 35 anni (era il 2012) alla guida di FdI prevedeva l’esito di adesso.