Afghanistan e lotta al terrore, i droni non bastano. "Devono tornare gli 007 sul terreno"

Il generale Tricarico: "Spesso vengono usati in maniera troppo disinvolta, anche dagli americani. I più ’bravi’? Israele"

Un pilota americano manovra a distanza un drone Reaper

Un pilota americano manovra a distanza un drone Reaper

Generale, la guerra del futuro si farà soprattutto con i droni, i velivoli senza pilota manovrati a distanza? Leonardo Tricarico, già capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana e presidente della fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analysis), ne è convinto, ma tiene molto a una premessa: "C’è da fare una distinzione prima che un uso generalizzato e soprattutto indiscriminato dei droni appaia sulla scena, anche in seguito a questi feroci ed efferati attentati avvenuti in Afghanistan che verosimilmente potrebbero avviare una nuova stagione di terrore. Sul piano concettuale il drone è il mezzo volante più sicuro rispetto a qualunque altro aeromobile, se si vogliono compiere attacchi mirati senza fare danni collaterali…".

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Però in pratica cosa accade?

"Paradossalmente un uso affrettato e poco rispettoso della vita dei non combattenti, insomma degli innocenti, può portare ad acuire i problemi anziché risolverli. C’è chi può dare una lezione in questo senso".

Chi?

"È Israele. Quando i droni sono comparsi sulla scena dei conflitti aveva usato con una certa disinvoltura questi mezzi per colpire quelli che riteneva i suoi nemici, Hamas, Hezbollah e altri, ed era arrivato ad avere un rateo di uno a uno, ossia per ogni terrorista, o supposto tale, ucciso perdeva la vita anche un innocente. Negli anni che vanno dal 2004 al 2006, dopo una politica molto oculata, l’Aeronautica di quel Paese è arrivata a conseguire il risultato di uno a ventiquattro, cioè per ogni ventiquattro obiettivi legittimi colpiti perdeva la vita un innocente".

Quindi Israele è un modello da seguire?

"Quell’esempio virtuoso è rimasto tale".

Non è stato imitato?

"Purtroppo oggi l’attenzione internazionale delle forze aeronautiche o di altre istituzioni che usano i droni, come la Cia, deve essere richiamata al rispetto della vita di chi, pur non avendo nessuna colpa, viene a trovarsi sotto l’attacco".

Israele è un caso unico?

"Sì, purtroppo. Gli scenari bellici, o simili, sono segnati da un uso non oculato dei droni. Temo che l’Afghanistan, anziché far regredire questi comportamenti, possa accentuarli. Insomma l’attenzione internazionale deve essere attivata affinché i velivoli senza pilota vengano usati con prudenza, con moderazione e con pazienza. Di per sé sono sicuramente un mezzo idoneo a soddisfare le aspettative del presidente Biden che vuole punire chi ha compiuto gli attentati a Kabul".

È necessario anche avere un’intelligence sul terreno. In Afghanistan chi potrebbe fornirla?

"Negli anni l’intelligence umana è andata perdendo importanza nella considerazione degli eserciti. Oggi va rivalutata. In alcuni contesti è quasi insostituibile".

Anche in Afghanistan?

"È chiaro che ci saranno difficoltà. Al drone debbono essere associate l’intelligence e la indispensabile professionalità dell’analista che riesce a sbrogliare le situazioni sul terreno guardando le immagini. Occorre che sia esperto".

Da chi potrebbero venire le informazioni in Afghanistan?

"Intanto dai talebani. Sappiamo che la Cia ha contatti con loro. Se è vero che questi gruppi terroristici sono un ostacolo sulla strada del consolidamento del potere appena nato o nascente, non escluderei che si possa creare una collaborazione fra i talebani e chi vuole neutralizzare o fermare i terroristi. Un’altra fonte è sicuramente il Pakistan, un Paese con il quale i rapporti non sono mai cessati, pur essendo sempre improntati all’ambiguità. Infine, ci possono essere infiltrati e fonti locali. Quest’ultima strada mi pare la più ardua ed è solo di carattere concettuale, perché non conosco la situazione attuale sul terreno".

Così potrebbe funzionare anche in Afghanistan la guerra del futuro?

"Che però ancora non è stata scritta".

In che senso?

"Si cerca sempre di sbrogliare situazioni particolari, ma non esiste una dottrina scritta per l’impiego della forza strutturata. Viene definita di volta in volta, secondo le necessità. Questo è un gran problema anche in vista di un esercito europeo. Vogliamo costituirlo, ma non sappiamo esattamente cosa dovrà fare. Nell’attesa che diventi una realtà forse converrebbe affrontare i problemi dottrinari per vedere cosa serve. Gli scenari hanno una loro ripetitività che però non è sovrapponibile al cento per cento con quel che poi si trova. I droni sono sicuramente un elemento essenziale. Si deve capire come dovranno interagire con le componenti, l’intelligence e altre, che andranno a formare una nuova macchina bellica. Per ora nessuno l’ha disegnata".