Londra spinge Assange verso gli Stati Uniti

Sì all’estradizione, il fondatore di Wikileaks può fare ricorso. Rischia 175 anni di carcere per la pubblicazione di documenti riservati

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di Marco Principini

Il governo di Boris Johnson ha dato il via libera politico alla consegna di Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, al grande alleato americano, apponendo per mano della ministra dell’Interno Priti Patel – falco della destra Tory già impegnata a cercare di spedire in Ruanda carichi di migranti clandestini in cerca di asilo – la firma sul decreto d’estradizione oltre oceano dell’ex primula rossa australiana. Inseguito da ormai oltre un decennio dalla sete di vendetta di Washington, Assange negli Usa rischia sulla carta una condanna fino a 175 anni di galera per aver contribuito a rendere pubblici montagne di documenti riservati imbarazzanti per molti governi, contenenti fra l’altro evidenze di crimini di guerra Usa in Iraq e Afghanistan. Un atto tecnico largamente scontato, quello di Patel. E ancora appellabile, come i difensori di Assange, 51 anni a luglio, si apprestano a fare entro i 14 giorni prescritti. Ma che sarà dura rovesciare, malgrado lo sdegno dei sostenitori sparsi per il mondo, tenuto conto che a riaprire il caso su basi puramente procedurali dovrebbe essere quella medesima Alta Corte britannica che – dopo un iniziale stop in primo grado – ha già dato nel merito giuridico la cruciale autorizzazione all’estradizione. E che un eventuale successivo ulteriore ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo potrebbe arrivare tardi. O essere ignorato.

Come dire che il destino appare segnato, nonostante le proteste globali di voci assai variegate: da ambienti Onu a ong del calibro di Amnesty International o di Reporter Senza Frontiere, da associazioni giornalistiche di mezzo mondo a partiti ed esponenti politici (anche italiani) fuori dal coro; fino a qualche nicchia bipartisan del Parlamento di Westminster (dall’ex leader laburista Jeremy Corbyn all’ex ministro garantista conservatore David Davies) e - sia pure in una chiave di maggior prudenza dopo la recente vittoria elettorale - allo stesso Anthony Albanese, neo primo ministro della terra natale di Assange proveniente dai ranghi dell’ala sinistra del Labour d’Australia. "Consentire che Assange venga estradato significherebbe esporre lui a un grande pericolo e mandare un messaggio agghiacciante ai giornalisti di tutto il mondo", ha tuonato fra i primi Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty, bollando come poco credibile, precedenti alla mano, l’impegno pro forma messo sul piatto in zona Cesarini dai rappresentanti di Washington di risparmiare se non altro al reprobo un "isolamento prolungato in cella" e vessazioni equiparate alla "tortura". In prima fila nella battaglia ci sono però soprattutto WikiLeaks e naturalmente Stella Morris: la legale sudafricana che ad Assange ha dato due figli durante i 7 anni del suo asilo nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, per poi sposarlo a marzo dietro le mura del carcere.