SIMONE ARMINIO
Cronaca

L’italiano alla corte degli Stones: "Una chiamata mi cambiò la vita. E iniziai a lavorare con Jagger"

Marco Sonzini, 39 anni, ingegnere del suono di Piacenza vive a Los Angeles dal 2009 "In studio per l’ultimo disco sognavo a occhi aperti: un giorno c’era McCartney, l’altro Elton John".

Marco Sonzini, ingegnere del suono, italiano, 39 anni, è ormai un nome a Los Angeles: c’è la sua mano dietro all’ultimo disco di Eddie Vedder, il cantante dei Pearl Jam, e in Italia si affidano ormai solo a lui Vasco Rossi e Tiziano Ferro. Un giorno di fine estate gli squilla il telefono, ma il solito interlocutore è stranamente misterioso. "C’è da fare un lavoro – dice vago–. Sei libero a fine ottobre?". "Per chi?". L’unica risposta: "vale la pena".

Vero, poiché si trattava di fare un disco con i Rolling Stones.

"C’è voluto un po’ per capirlo. In questo mestiere la riservatezza è tutto: prima di iniziare un lavoro firmiamo mille clausole. Quella volta Andrew Watt, uno dei produttore con cui lavoro, voleva che accettassi a scatola chiusa. Ero restio. Allora per convincermi a mezza bocca mi disse: beh, sono gli Stones".

E lei?

"Ho pensato fosse un gruppo esordiente che aveva scelto di inserire ’Stones’ nel nome per omaggiare Jagger e soci. Ma sono bravi? E lui: non hai capito, sono i Rolling Stones".

Sarà svenuto.

"(ride,ndr). Ho sospirato. Una piccola pausa, poi ho risposto: mi sa che mi tengo libero".

Il Primo novembre scorso, giorno del suo compleanno, sono partite le registrazioni di Hackney Diamonds, nuovo disco degli Stones dopo 18 anni.

"Arrivo in studio e vedo un tizio di spalle... Era Ronnie Wood".

Che tipo è?

"Molto socievole. Una domenica, a Londra, si è presentato in studio con un barbecue portatile e ha cucinato per tutti".

In un’intervista nel 2021 lei diceva: il mio sogno? Lavorare con Mick Jagger. È successo.

"E io non ci volevo credere. Vederlo cantare al di là del vetro, sentire la sua voce in cuffia, non ero certo stesse accadendo per davvero".

Si è fatto una foto con lui?

"No".

E perché mai?

"Ero concentrato sul lavoro: avevo la necessità e la volontà di dare il meglio di me. Stavo lavorando al disco degli Stones...".

Un ricordo che ha di Jagger?

"Avevo appena registrato. Lui è entrato a riascoltare la sua voce senza che me ne accorgessi, a un certo punto mi giro e me lo vedo ballare di fianco...".

Lo chiamano folletto non a caso, d’altronde.

"È proprio vero: che sia in studio, di fianco al mixer o sul palco di fronte a migliaia di persone, non cambia: lui si esibisce". Il momento più bello?

"Il bello di Hackney Diamonds è che è un disco pieno di ospiti assurdi. Quindi si metta nei miei panni, arrivo al mattino e mi dicono: oggi c’è Elton John...".

... O Paul McCartney.

"Quello è un momento topico".

Lo condivida.

"Ero in studio con McCartney, la produzione ci ha chiesto di spostarci nello studio di fianco, perché lì sarebbe venuto Mick Jagger. Poi lui a un certo punto è arrivato, i due si sono salutati, e McCartney ed io ci siamo spostati nello studio di fianco. Un Beatle e un Rolling Stones: ripenso a questa staffetta tra due tra i più grandi artisti di sempre, coloro a cui chiunque faccia musica si deve rifare. Ero lì, e pensavo che, no, non poteva essere successo davvero. Me lo sono sognato".

C’è il suo nome nei crediti di Hackney Diamonds, tranquillo: è successo davvero.

"Sicuro non fossero dei sosia? (ride, ndr). Però in mia discolpa posso dire che la reazione che abbiamo noi nei confronti di questi mostri sacri ce l’hanno anche altri musicisti celebri".

Ad esempio?

"Ero con Eddie Vedder, il cantante e chitarrista dei Pearl Jam, un idolo. Un giorno abbiamo registrato un brano con Ringo Starr. Io ero ammaliato, ma ho cercato di sembrare professionale. Così dopo la sessione dico: bene Eddie, ora ci spostiamo di là a registrare il resto. Vedder mi guarda stralunato e dice: aspetta, ho appena suonato con Ringo Starr, devo prima svegliarmi".

Come si arriva nell’empireo del rock mondiale, partendo da Piacenza?

"Ho studiato chitarra classica, poi Scienze e tecnologie della Comunicazione Musicale a Milano. Una laurea bellissima, ma mi mancava la pratica, così sono andato a Los Angeles a studiare da audio engineering. Un corso di base, nulla di che. Ho detto ai miei: tranquilli, dura dieci mesi, poi ritorno. Sono passati 14 anni".

La svolta?

"È arrivata con Vasco, che registra qui a Los Angeles. Poi è arrivato Tiziano Ferro, e da lì, passo dopo passo, ci sono stati Iggy Pop, Ozzy Osbourne, Vedder..."

E ora gli Stones. Chi resta?

"Se avessi la bacchetta magica di sicuro Van Halen, che purtroppo è morto tre anni fa. O più verosimilmente Eric Clapton, il chitarrista che da piccolo mi ha fatto innamorare della musica. Sarebbe un miracolo, ma mai dire mai. Con i Rolling Stones il sogno si è avverato".