Mercoledì 24 Aprile 2024

L’ira di Boris: costretto a lasciare "I miei colleghi? Ha vinto il branco"

Dopo l’esodo di massa dei suoi ministri anche il capo del governo decide di fare un passo indietro. Rinuncia al ruolo di leader del partito di maggioranza, ma vuole restare a Downing Street fino all’autunno

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di Deborah Bonetti

LONDRA

Una fine surreale quella di Boris Johnson, cacciato ieri dopo un esodo di massa dei suoi ministri (59 dimissioni in poco più di 36 ore) che aveva di fatto reso ingovernabile il Paese. Dopo aver resistito fino all’ultimo agli appelli dei colleghi di dimettersi, il premier più discusso e contestato della Gran Bretagna ha dovuto cedere. A mezzogiorno e mezzo ora locale è uscito dalla porta nera e lucidissima del numero 10 di Downing Street e ha detto addio. Non ha parlato di dimissioni, non ha accennato a scusarsi per le tante menzogne e i voltafaccia degli ultimi mesi, ha definito "eccentrica" la decisione di estrometterlo "nel bel mezzo di grandi campagne per risollevare il la nazione". "Non avrei voluto lasciare", ha chiarito. E ha accusato i colleghi di muoversi con "l’istinto del branco" e, con una certa emozione, ha salutato tutti dicendo che il futuro sarebbe stato "dorato".

Un discorso che ha strappato applausi ai presenti e qualche lacrima ai fedelissimi (tra cui la giovane moglie Carrie con la figlioletta Romy di pochi mesi), ma la realtà è che la sua fine politica è simile ad una tragedia shakespeariana. Il cinquantottenne Boris, che come politico aveva le capacità di essere forse uno dei più geniali delle ultime generazioni, ha troppo spesso fatto la figura del buffone, il "gorilla albino", il "politico-Heineken". Mai serio, sempre superficiale, poco incline ai dettagli noiosi e attratto solo dalla polvere di stelle degli amici riccastri, che gli offrivano vacanze dorate e gli pagavano la ristrutturazione degli appartamenti, Johnson ha sperperato il suo enorme capitale politico a destra e a manca, rimanendo alla fine completamente solo. Nessuno prima di lui era riuscito a far crollare il "red wall", il muro rosso di circoscrizioni laburiste nel Nord del Paese, che mai avevano votato Tory prima d’ora. Con lui, nel 2019, ci hanno creduto, lo hanno seguito, abboccando alle sue promesse. Nel 2019, Johnson ha conquistato una maggioranza che non si vedeva dai tempi della Thatcher, con 80 nuovi parlamentari, con i quali avrebbe potuto cambiare il mondo.

Invece, prima si è infangato con la Brexit e la poca serietà dimostrata nei confronti della Unione europea, poi c’è stato il Covid e una serie concatenata di decisioni sbagliate che hanno reso l’Inghilterra uno dei luoghi più colpiti dal virus dell’intera Europa. E poi ancora il partygate, con i festini a Downing Street mentre il resto del Paese soffriva in lockdown, poi la difesa dell’indifendibile, come i sostegni estesi a colleghi improponibili e l’assoluta mancanza di rispetto per le regole che hanno sempre governato il Regno Unito, una delle più antiche democrazie del mondo.

Alla fine sono stati i suoi fedelissimi ad affondare la lama. E ancora, come uno zombie, non sembra voler lasciare la poltrona, offrendosi come traghettatore fino all’arrivo del suo successore. C’è chi dice che sia perché vuole fare una festa di nozze a Chequers, la residenza di campagna del primo ministro (l’avrebbe promessa a Carrie) prima di andarsene. C’è invece chi dice che forse spera ancora di tornare in sella. Intanto è già partita la gara dei papabili: in pole position ci sono l’ex-cancelliere Rishi Sunak, il successore Nadim Zahawi e la ministra degli esteri Liz Truss. Ma il campo è ampio: il ministro della difesa Ben Wallace piace molto, così come quello della sanità Sajid Javid e l’ex-rivale Jeremy Hunt. Tra gli outsider, i giovani Penny Mordaunt e Tom Tugendhat.