Mercoledì 24 Aprile 2024

L’imperatore del caffè "Musica lirica ed espresso, la mia vita in una tazzina Senna? Una ferita aperta"

Dalle amicizie alla passione per la musica e lo sport, il patron della Segafredo apre l’album dei ricordi "C’ero anche io a Imola quando il campione brasiliano perse la vita. Mi aveva invitato alla gara"

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di Sandro

Neri

L’album dei ricordi è talmente ricco che lui stesso fatica, tra tante istantanee, a indicare la più bella. Però, mentre le sfoglia rapido con la memoria, è la sua voce incrinata dall’emozione a tradire qual è l’immagine che porta dritta al cuore. "Imola, primo maggio 1994. C’ero anch’io il giorno di quel maledetto incidente che ci ha portato via Ayrton Senna. Mi aveva chiesto lui di raggiungerlo al Gran Premio. Siamo stati insieme tre giorni, c’erano anche i miei figli... Una tragedia incredibile. A ripensarci, ancora oggi mi viene da piangere".

Massimo Zanetti, il re del caffè, a capo dell’azienda e della holding che portano il suo nome, non è solo un imprenditore di successo. È un uomo che alle emozioni non ha mai chiuso la porta, anzi. "Sono un artista", confessa. "Lo ero sicuramente da giovane. Sempre dietro alle mie passioni". Lo sport, prima di tutto. Poi il canto, che lo portò a debuttare nella lirica e, prima ancora, ad arrivare alla finale di Settevoci, presentatore Pippo Baudo, in un’improbabile tenuta beat: "Camicia arancione e braghe viola, come Tom Jones: vi lascio immaginare la faccia di mio padre". Il caffè, le torrefazioni, l’azienda Segafredo di Rastignano di Pianoro e la Beverage Group – 60 sedi e 4.000 dipendenti in vari Paesi del mondo – sono arrivati dopo. "Ho a lungo pensato che quello fosse il mestiere di mio padre e dei miei fratelli, ma non il mio. Anche se, già all’età di sei anni, il caffè mi aveva seppellito. Letteralmente. Giocando in azienda, ero finito sotto una pila di sacchi. Mi hanno trovato alle 11 di sera, tutto impolverato, quando avevano quasi perso le speranze".

Com’era la sua famiglia?

"Mio padre Virgilio e i miei due fratelli si occupavano del caffè. Non era un’industria, la loro. Dopo il 1945, grazie agli americani erano nate le torrefazioni. Mio padre vendeva il caffè alle imprese. Io ho iniziato questo lavoro quando sembrava che tutto stesse crollando".

E ha creato un impero.

"Non è stato un colpo di fulmine. Ho rilevato il marchio di una torrefazione. Ne avevo già creata una mia prima, in realtà. Ma nel frattempo l’avevo venduta e con i primi soldi, un milione e mezzo di lire, mi ero comprato una Jaguar. Mi ero lanciato in questo lavoro solo per dimostrare a mio padre che vero in grado di farlo, magari anche meglio di lui".

Un rapporto difficile?

"Io ho preso tutto da mio padre. Lui non mi capiva a causa di questa mia vocazione artistica. Persona molto quadrata, vestiva in giacca e cravatta anche la sera, a casa. E ogni mattina si puliva le scarpe da solo, perché fossero sempre lucide. Però da lui ho preso la serietà e l’amore per lo sport".

La Virtus Pallacanestro Bologna, prima ancora la Formula 1, il calcio...

"Dello sport sono un mecenate. Mio padre, invece, era un vero fanatico. Al mattino, d’estate, veniva a svegliarci all’alba per portarci fuori a fare ginnastica. A 8 anni ho iniziato a giocare a tennis, ho vinto il campionato del Triveneto e poi il torneo di Cortina. A 15 anni ho battuto Corrado Barazzutti, che ne aveva 11 e la stoffa di un campione. Poi sono passato al pallone, prima col Carbonera e poi col Treviso Calcio che mi ha comprato per 5 milioni di lire. Ho lasciato perché nel frattempo avevo iniziato a cantare. Era il momento dei Beatles, con la mia voce vinco il Festival di Bibione, con Annarita Spinaci. Arrivo in finale a Settevoci ma in viaggio, all’altezza di Verona, sento alla radio La forza del destino. Dimentico Settevoci, faccio marcia indietro e torno a casa per studiare lirica. Fino a 24 anni. Dopo un’audizione alla Piccola Scala, Ettore Campogalliani mi prende. A Treviso, a quel punto, ero già una celebrità. Quasi come Luciano Pavarotti".

L’ha conosciuto?

"Bene, anche. Ero tra gli invitati al suo primo matrimonio".

Ayrton Senna aveva Segafredo come sponsor personale.

"L’ho conosciuto che aveva 17 anni. Fu Ecclestone ad affidarmelo. L’ho portato al suo primo Gran Premio, a Rio De Janeiro, con il marchio Segafredo sull’auto, quando sono entrato nella Toleman. La sera prima, alla cena, al suo fianco c’era la mamma. Ma alle prove non si qualifica. Non le dico le lacrime. Piangeva lui e piangeva la madre. Al secondo Gran Premio, però, è decollato e da quel momento è stato sempre Ayrton Senna".

Da imprenditore come vive questa particolare fase?

"Da tre anni a questa parte, per effetto della pandemia, della guerra in Ucraina e della crisi energetica, è un periodo molto duro. Sono orgoglioso di aver creato aziende in tutto il mondo, ma questa situazione è difficile ovunque, nessun Paese viene risparmiato".

I bar chiudono a causa delle bollette troppo alte.

"Come Zanetti Segafredo fatturiamo il 15 per cento in meno, con gli stessi clienti. La gente risparmia anche sul caffè".

Il prezzo del caffè al banco è troppo basso come sostengono i baristi?

"Il prezzo giusto dovrebbe essere un euro e 50. La quota maggiore dell’incasso di un bar viene dal caffè. La cui bontà non è il frutto solo della maestria del barista che lo prepara, ma della qualità degli investimenti che ci sono alla base. Per cominciare, quelli sulle macchine. Fare un caffè non è come stappare una bibita. E se il bar deve guadagnare sul caffè, venti centesimi a tazzina sono pochi".

Il Paese che consuma più caffè?

"La Finlandia: 10 chili pro capite contro i 4 dell’Italia".

La vera tradizione, però, è qui da noi.

"L’espresso rappresenta il 30 per cento del mercato; il 70 è dato dal caffè filtro. Ed è un settore che continua a crescere, perché i Paesi del tè stanno passando al caffè. All’Italia resta la storia: il primo caffè, fatto col pentolino, risale al 1700, a Venezia. Italiano anche il primo brevetto della macchina per l’espresso, registrato nel 1920".