L’identità Pd, un partito senz’anima. "Ora deve scegliere chi vuole rappresentare"

Storici e scienziati della politica concordi: un amalgama poco riuscito. Da Pasquino a Ignazi, da Tonelli a Panarari, l’analisi su crisi e prospettive

Enrico Letta (Ansa)

Enrico Letta (Ansa)

La domanda, dopo la prova, diciamo così, non brillante del Pd è legittima. Persino ovvia. E non nasce certo all’indomani della pessima prova di domenica: che cosa sono e che cosa dovrebbero essere i democratici nostrani? La questione non è solo di natura politica pura, ma di carattere anche culturale. Luca Ricolfi, sociologo e politologo fra i più in voga, ha recentemente analizzato il dilemma e ha, tra l’altro, sottolineato: "Il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi". Insomma, sintesi estrema del cronista, né carne né pesce.

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Sostiene Anna Tonelli, ordinario di storia contemporanea all’Università di Urbino Carlo Bo: "Siamo chiari: il Pd nasce già nel 2007 come un amalgama poco coesa di due eredità politiche, quella comunista e quella democristiana, che già avevano subito forti scossoni al loro interno. E da quella fusione non è mai nato un partito effettivamente nuovo e soprattutto innovativo. Né falce e martello né scudocrociato, ma una forma ibrida che non ha mai trovato una strada originale". Mica poco, visto che ha governato per tanto tempo...

Ma che cosa dovrebbe diventare allora? Gianfranco Pasquino, professore emerito di scienza politica nell’ateneo di Bologna (ha di recente pubblicato Tra scienza e politica. Una autobiografia per Utet) ride (forse per non piangere...): "Che cos’è il Pd? Dovrebbe porre la domanda al dottor Freud... Il Pd non è un partito progressista, non è un partito socialdemocratico, nulla ha di liberale. Manca, insomma, di cultura politica". Però gestisce il potere... "Se qualcuno dovesse criticarlo – prosegue Pasquino – perché è un partito di “potere”, sbaglia alla grande. Il potere è l’ultimo dei problemi del Pd: la politica si fa col potere, esercitando il potere".

Sul futuro dei dem, Piero Ignazi (politica comparata nell’Università di Bologna) ha le idee chiare. E basterebbe una parola, un tempo poco amata a sinistra, per esplicitare il suo pensiero: "Socialdemocrazia". "Il Pd – ragiona – non ha che una via d’uscita dalla crisi strutturale che l’attraversa: diventare un partito compiutamente socialdemocratico. Ma socialdemocratico all’antica, diciamo così". Vale a dire che deve tornare alle origini della sinistra? "Vede, da tempo oramai il Pd ha ‘conquistato’ i ceti borghesi. Ha parlato con successo di diritti civili. Ma altresì si è dimenticato di chi, ogni giorno, è nelle fasce più deboli, di chi soffre ed è in difficoltà". Insomma, un po’ più laburista? "Non un po’? No, deve essere molto laburista. E occuparsi degli ultimi". Però non si può disconoscergli un merito: il Pd è stato decisivo per la scelta bipartitica, no? Tonelli affonda il coltello: "Un’ulteriore aggravante: ha scelto il bipartitismo quando ormai era alle corde nei paesi che l’avevano già sperimentato. La sconfitta arriva da lontano, e non è dettata solo dagli umori del momento. Determinata dalla perdita di presenza e ancoraggio nei territori e dallo strapotere delle segreterie e dei capicorrente a scapito dei cittadini elettori". Impietosa.

Come, del resto, Pasquino: "È un partito di correnti in lotta perenne fra di loro, dove contano i legami familiari, dove si sta assai attenti alle gerarchie. Il Pd non ha una visione unitaria del Paese e presenta alle elezioni piccoli fiori all’occhiello. Il problema è che questi fiori, belli quanto vuoi, il più delle volte appassiscono coi risultati disastrosi che vediamo. Dovrebbe diventare un moderno partito socialdemocratico con una solida cultura politica. Oggi assente".

Eppure ci dev’essere per il futuro dem una sorta di arma vincente. O no? Per Massimiliano Panarari (professore di Sociologia della comunicazione all’Università Mercatorum di Roma), sì. Ecco la sua ricetta: "Un partito modernamente laburista, cosa diversa da uno assistenzialista e populista – terreno su cui in tanti sono molto più attrezzati – a dispetto dei desideri delle oligarchie interne". E poi "serve un leader a tutti gli effetti". Un dato sembra chiaro, al di là delle sfumature: questo Pd non ha un’identità. Il che è un problema di non poco conto, diciamo.