Lgbt e aborto Venezia parla una nuova lingua

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Chiara

Di Clemente

La Mostra di Venezia di quest’anno ha messo al centro del Concorso una significativa quantità di film – anche tre italiani sui 4 passati finora – che affrontano la questione dei diritti Lgbtq+, raccontandone la difficilissima conquista di fronte alla violenza dell’emarginazione. È facile recuperare il film da Audrey Diwan che ha vinto la Mostra l’anno scorso: s’intitola La scelta di Anne, è tratto dal romanzo autobiografico di Annie Arnaux L’evento (2000).

È la storia di una studentessa al primo anno di università, non ricca, molto brillante, incinta dopo un unico rapporto, occasionale: diventare madre significherebbe dover abbandonare gli studi, Anne decide di abortire ma l’aborto – siamo in Francia nel 1963 – è illegale. Se abortisce rischia la prigione; chi l’aiuta ad abortire rischia la prigione. Il film è una cronaca asciutta: settimana dopo settimana insieme alla creatura non desiderata ("se avessi un figlio ora lo odierei") crescono attorno a lei la solitudine – chi sa l’abbandona –, e dentro di lei la disperazione.

È una disperazione netta, assoluta: vediamo Anne che s’infila da sola un ferro da calza, la vediamo poi mentre si sottopone all’intervento eseguito da una donna, per 400 franchi, a patto che la ragazza – totalmente cosciente di tutto – non emetta un solo grido, "questa è casa mia, le pareti sono sottili". La donna avverte Anne che può morire, le dice sta a te la scelta. Ma non c’è nessuna scelta, perché l’aborto è illegale: Anne può solo scegliere di dire sì, meglio morta che madre di un figlio che non riesco ad amare.

A vederlo un anno fa, questo film raccontava un passato lontanissimo; a vederlo oggi racconta – né più né meno – il presente Usa, e le ombre che la Sentenza della Corte Suprema statunitense sta proiettando ovunque, fino a noi. Il cinema, l’arte, hanno talvolta il dono di incarnare la realtà prima che accada. Tanto è forte l’onda delle nuove generazioni che reclamano quale fondante normalità il diritto all’inclusione e al rispetto – in primis della libertà di genere – tanto per reazione si stanno alzando dappertutto barriere sempre più alte per arginarla.

La battaglia per la legalizzazione dell’aborto pareva vinta da tempo. Quella per i diritti Lgbtq+ è ancora in corso. Con Monica di Pallaoro – sulla difficile riconciliazione con la madre di una trans trentenne bandita dalla famiglia quand’era ragazzo –, con la memoria dell’Italia ferocemente bigotta in cui si consumano il dramma della 12enne AdrianaAndrea (anni ’70, L’immensità di Crialese) e le tragedie di Braibanti e del fidanzato (anni ’60, Il signore delle formiche di Amelio), forse dalla Mostra sta arrivando un altro avvertimento: non è il caso di abbassare la guardia.