Venerdì 19 Aprile 2024

Letto e angolo cucina per il pentito Buscetta era nascosto nell’aula-bunker

La mafia lo cercava per ucciderlo, ma lui (controllato a vista) non si è mai spostato dalla sede del processo

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di Nino Femiani

Un letto, uno sgabello giallo, un cucinino con due piastre elettriche e un gabinetto alla turca. Fu l’alloggio in cui visse Tommaso Buscetta durante il Maxiprocesso alla mafia istruito dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel febbraio 1986. Un "monolocale" scavato in una zona top secret del carcere dell’Ucciardone a Palermo. Un’area riservata, gestita dall’ex capo della polizia Antonio Manganelli, e nella quale pernottavano anche gli agenti di polizia chiamati a vigilare sulla sicurezza e l’incolumità del superpentito. Una cella in cui Buscetta rimase per tutto il tempo in cui dovette testimoniare: i clan lo cercavano altrove, gli davano una caccia spietata, il tritolo era già pronto. Lui era lì, nell’occhio del ciclone, mentre fuori si imbastivano delle farse per depistare i sicari. Così la mattina arrivava un corteo di auto blu a tutta birra con il maxibunker sorvegliato da un elicottero: imponenti misure di sicurezza per iniettare nei mafiosi la convinzione che don Masino vivesse in una villa fuori Palermo.

Invece restò chiuso nel ventre dell’Ucciardone con i suoi angeli custodi. Un posto blindato con sistemi di protezione tali da poter resistere anche ad attacchi di tipo missilistico. Un alloggio francescano, niente a che vedere con il "Grand Hotel Ucciardone" quando Buscetta, allora mafioso lontano dal pentimento, ottenne che il matrimonio della figlia si svolgesse nella cappella del penitenziario, con elegantissimi testimoni e invitati e una grande tavola per il rinfresco imbastita nella sala della palestra, "gentilmente" concessa dalla direzione. In quella stanzetta di quattro metri per quattro, per un’intera settimana dal 3 al 10 aprile 1986, don Masino ripassò a mente quello che aveva detto a Giovanni Falcone per oltre un anno. Tanto si è scritto su quella confessione e quel "tradimento" fu oggetto anche di un film di Marco Bellocchio. Parlò per 45 giorni, ininterrottamente, mettendo a nudo i padrini corleonesi e rivelando gli autori di 121 omicidi. I mafiosi, schiumanti rabbia, la etichettarono come la "cantata dell’infame". Falcone firmò 366 ordini di arresto: mafiosi, sicari, colletti bianchi e gregari. I corleonesi non si rassegnarono e sferrarono l’attacco più violento. Prima uccisero due figli di Buscetta e alcuni suoi parenti, poi cominciarono le autobombe, la mattanza di poliziotti di Palermo che caddero uno dopo l’altro, valorosi come Beppe Montana e Ninni Cassarà. Dall’Ucciardone era intanto partita la cartolina con un ordine: eliminate Falcone e Borsellino. Un alto ufficiale dei carabinieri, nell’estate dell’85, si precipitò nell’ufficio del consigliere istruttore, Antonino Caponnetto: "Abbiamo intercettato una cartolina in partenza dall’Ucciardone. C’è un piano della mafia per uccidere prima il giudice Borsellino, poi Falcone". Caponnetto non ci pensò due volte e ordinò che i due magistrati e le loro famiglie fossero immediatamente trasferiti al sicuro, sull’ isola dell’Asinara. Un soggiorno obbligato, improvviso e quasi senza bagagli. Un’estate da carcerati. Fu un agosto torrido, come non se ne vedevano da tempo, e nella piccola foresteria di Cala d’Oliva, i due magistrati e le loro famiglie vissero completamente isolati dalla piccola comunità di civili dell’Asinara, controllati a vista da una pilotina e dalle guardie penitenziare.

Una condizione che non tutti riuscirono a sopportare. Lucia, la figlia più grande dei Borsellino, precipitò in uno stato di insofferenza tanto da essere riportata a Palermo. Manfredi, scosso anche da quello che era successo alla sorella Lucia, si avventurò in una fuga senza meta alla scoperta dell’isola: fu ritrovato in mezzo ai detenuti mentre distribuiva nutella e raccontava barzellette. Qui Falcone e Borsellino scrissero un’ordinanza da 8mila pagine, pietra miliare nella lotta a ‘Cosa Nostra’, chiamata in questo modo per la prima volta. Paolo e Giovanni tornarono a Palermo 25 giorni dopo, ma ricevettero dallo Stato l’ennesimo sgarbo: la fattura per le spese di soggiorno per loro e le loro famiglie. Diecimila lire al giorno.