di Nino Femiani Un letto, uno sgabello giallo, un cucinino con due piastre elettriche e un gabinetto alla turca. Fu l’alloggio in cui visse Tommaso Buscetta durante il Maxiprocesso alla mafia istruito dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel febbraio 1986. Un "monolocale" scavato in una zona top secret del carcere dell’Ucciardone a Palermo. Un’area riservata, gestita dall’ex capo della polizia Antonio Manganelli, e nella quale pernottavano anche gli agenti di polizia chiamati a vigilare sulla sicurezza e l’incolumità del superpentito. Una cella in cui Buscetta rimase per tutto il tempo in cui dovette testimoniare: i clan lo cercavano altrove, gli davano una caccia spietata, il tritolo era già pronto. Lui era lì, nell’occhio del ciclone, mentre fuori si imbastivano delle farse per depistare i sicari. Così la mattina arrivava un corteo di auto blu a tutta birra con il maxibunker sorvegliato da un elicottero: imponenti misure di sicurezza per iniettare nei mafiosi la convinzione che don Masino vivesse in una villa fuori Palermo. Invece restò chiuso nel ventre dell’Ucciardone con i suoi angeli custodi. Un posto blindato con sistemi di protezione tali da poter resistere anche ad attacchi di tipo missilistico. Un alloggio francescano, niente a che vedere con il "Grand Hotel Ucciardone" quando Buscetta, allora mafioso lontano dal pentimento, ottenne che il matrimonio della figlia si svolgesse nella cappella del penitenziario, con elegantissimi testimoni e invitati e una grande tavola per il rinfresco imbastita nella sala della palestra, "gentilmente" concessa dalla direzione. In quella stanzetta di quattro metri per quattro, per un’intera settimana dal 3 al 10 aprile 1986, don Masino ripassò a mente quello che aveva detto a Giovanni Falcone per oltre un anno. Tanto si è scritto su quella confessione e quel "tradimento" fu oggetto anche di un film di Marco Bellocchio. Parlò per 45 giorni, ...
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