L’emulazione è facile: si rischia poco

Giuseppe

Tassi

Cinque azzurri in ginocchio e sei in piedi. L’Italia di Mancini ha perso il suo proverbiale spirito di squadra solo in questa occasione: un minuto prima del fischio d’inizio della sfida col Galles. Bale, Ramsey e compagni protestavano con un gesto corale a difesa dei diritti dei neri e una metà dei nostri, un po’ per emulazione e un po’ per convinzione, ha deciso di imitarli. Gli altri si sono astenuti e hanno ricevuto violente invettive sui social, neanche fossero razzisti patentati. In realtà credo che Donnarumma, Bonucci e gli altri colleghi che non si sono messi in ginocchio siano convinti antirazzisti. Bravi ragazzi che danno alla vita dei neri il valore suggerito dal titolo del movimento ‘Black lives matter’. Semmai sono vittima della confusione, dei mille movimenti d’opinione che chiedono al calcio di fare da cassa di risonanza. Un disorientamento che Pessina, autore del gol al Galles e pronto a inginocchiarsi prima del match, ha confessato nel dopo gara.

Più che legittimo, anzi doveroso, che lo sport si schieri per diritti civili e minoranze ma lo faccia in modo chiaro e palese. Come lo furono i gesti dei grandi del passato: Muhammad Alì che pagò col carcere e una lunga squalifica la renitenza alla leva per il Vietnam; Tommie Smith e John Carlos che col pugno guantato di nero salirono sul podio olimpico di Messico ‘68, finirono squalificati e messi al bando dall’atletica. Per un’idea misero in gioco le loro stesse vite. Ogni volta che una protesta prende corpo, dentro il giardino dello sport, ripensi a questi esempi.