Giovedì 25 Aprile 2024

Legittima difesa, non basta essere bersaglio dei ladri. Il giudice dice no alla pistola

Negato il porto d’armi a un industriale di Brescia: non è sufficiente aver subito furti per ottenere la licenza. Causa lunga dieci anni, il Consiglio di Stato ha annullato l'ok del Tar

Furti in casa o nei negozi, è boom di richieste di porto d'armi

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Brescia, 19 agosto 2018 - «Tranne I CASI previsti dalla legge, non è ravvisabile l’esigenza che sia rilasciata la licenza di porto di pistola per difesa personale quando si faccia parte di una categoria che svolga una attività lavorativa. Neppure la mera proposizione di denunce e di querele ha uno specifico significato ai fini del rilascio della medesima licenza, quando non emergano specifiche e gravi circostanze di fatto». Questo il motivo che ha portato il Consiglio di Stato ad accogliere il ricorso del ministero degli Interni (depositato nel 2012) contro una sentenza del Tar di Brescia che nel 2008 aveva accolto le rimostranze di un imprenditore, a cui la prefettura aveva negato il porto d’armi.

In un periodo in cui il tema della legittima difesa infiamma il dibattito politico, la sentenza del Consiglio di Stato rischia di sollevare un vespaio di polemiche. Giovanni Arrigoni, questo il nome dell’imprenditore bresciano di Pian Camuno, aveva chiesto nel gennaio del 2008 il porto d’armi denunciando di avere subito un furto in azienda.

L’uomo si sentivaun bersaglio perché «in qualità di imprenditore – si legge nella richiesta inoltrata 10 anni fa – anche in relazione alla gestione dei circa cento dipendenti della propria azienda, si trova spesso in possesso di notevoli somme di denaro in contante». Il vice prefetto vicario qualche settimana dopo aveva rigettato la richiesta, provocando la reazione di Arrigoni che era ricorso al Tar sostenendo che «considerati anche i frequenti episodi di rapina che hanno colpito imprenditori lombardi negli ultimi anni, la sua attività e il conseguente maneggio di denaro» lo avrebbe esposto a un rischio tale da giustificare l’autodifesa. I giudici bresciani amministrativi gli avevano dato ragione, annullando la decisione della prefettura.

A distanza di sei anni il Consiglio di Stato ha ribaltato la sentenza a favore del ministero degli Interni e condannato l’imprenditore al pagamento di 1.500 euro di spese legali. «Spetta al legislatore introdurre una specifica regola se l’appartenenza a una categoria giustifica il rilascio di tali licenze – si legge nella –. Se si tratta di imprenditori, commercianti, avvocati, notai, operatori del settore assicurativo o bancario, investigatori privati, in assenza di una disposizione di legge si deve ritenere che l’appartenenza alla categoria in sé non abbia uno specifico rilievo».