di Leo Turrini Mauro Bellugi è uscito dal campo della vita così come usciva dal campo di calcio: a testa alta. Altissima. Se ne è andato a 71 anni, stroncato da complicazioni figlie del Covid. Ma non ha sbagliato l’ultima partita: anzi, l’ha giocata anche per noi. Per tutti. L’ex difensore dell’Inter, del Bologna e della Nazionale di Bearzot era finito in ospedale alcuni mesi fa. Il virus non gli aveva fatto sconti. A novembre era arrivata la notizia che, per tentare di salvarlo, i medici erano stati costretti ad amputargli entrambe le gambe. Quelle gambe che aveva portato a spasso negli stadi più belli del mondo: lui c’era nelle mitiche sfide del 1971 tra i nerazzurri e il bionico Borussia del biondissimo Netzer (proprio ai tedeschi segnò l’unico gol in una lunghissima carriera) e lui c’era a Wembley nel 1973 quando l’Italia vinse per la prima volta in Inghilterra. E c’era ancora in Argentina nel Mundial del 1978, ponendosi come ideale anello di congiunzione tra la generazione di Facchetti e Mazzola e quella di Cabrini e Paolo Rossi. Quando i dottori gli dissero che dovevano toglierlele, le gambe del campione, beh, in quel momento Mauro Bellugi è diventato un simbolo per ognuno di noi. Per il modo in cui ha reagito, facendo, lui!, coraggio agli altri. Per la testimonianza che quotidianamente ha offerto dal letto di dolore. La pandemia proibiva le visite? E allora questo magnifico toscano si attaccava al cellulare, rilasciava interviste, ricordava l’amico Pablito, progettava un futuro con le protesi, conversava con Massimo Moratti, incitava la sua Inter. Immaginava un futuro, anche se forse aveva intuito di essere un protagonista ai tempi supplementari: ma non per questo attendeva rassegnato il fischio finale! Ah, Bellugi! Non è stata questa, sommessamente mi viene da pensare, una grande lezione? Sembrava quasi avesse compreso che ...
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