La colonna di camion militari carichi di  bare lascia Bergamo, 19 marzo 2020.
ANSA/ Fabio Conti

La colonna di camion militari carichi di  bare lascia Bergamo, 19 marzo 2020.

Roma, 19 marzo 2023 - Non ricordavo che ieri fosse la giornata dedicata alle vittime del Covid. L’ho scoperto dalla radio, mentre ero in auto. Ho fatto un bel respiro profondo e la prima cosa che mi è venuta in mente è stata la voce al telefono di mio padre. Era una decina di giorni che era ricoverato proprio a causa del (all’epoca) nuovo coronavirus, gli avevano messo il casco per respirare meglio e quando parlava al telefono si sentiva a fatica. Però, in uno sprazzo di spensieratezza, mi disse: "Hai visto che rigore hanno dato alla Juventus? Il solito regalo…". La mia risposta non fu immediata, perché gli occhi si riempirono di lacrime e lo stomaco si strinse: pensai che forse davvero stava meglio e ce l’avrebbe fatta. E così dissi: "Hai ragione, sono sempre i soliti". In quei giorni avevo scaricato un app per registrare e riascoltare le telefonate, anche quelle con i medici, per capirci qualcosa di più su ciò che succedeva. Ma volevo conservare la sua voce, la voce del signor Carlo, come lo chiamavano al lavoro. Quella telefonata andò persa e con essa le altre, compresa quella di quando il medico di turno mi annunciò che non ce l’aveva fatta, che il Covid se lo era portato via per sempre. Oggi mi sono riletto le ultime pagine della sua cartella clinica, quasi a volergli tenere la mano negli ultimi momenti, a capire cosa sia successo nelle ultime ore, perché ci abbia lasciato. Ripenso a quei giorni, alla fatica e al dolore di saperlo solo e spaventato, al suo volto cambiato: dopo tre settimane che era ricoverato senza potersi alzare, gli sarà cresciuta la barba, pensavo. Lui, che si radeva tutti i santi giorni. Chissà che faccia avrà avuto con la barba bianca. Poi mia mamma, che ieri ascoltando le testimonianze da Nembro in tv, ha iniziato a piangere. Anche lei era stata ricoverata negli stessi giorni in cui il papà era in Rianimazione. "Ho il Covid anch’io – ripeteva lei ai medici tra le lacrime – fatemi andare, voglio solo stringergli la mano". "Signora non si può mi spiace, ma non si preoccupi, andrò io a portarle i suoi saluti. Lo farò personalmente", le disse il primario per rincuorarla. Ma non bastarono a placare la sua disperazione. "Mamma, il babbo non ce l’ha fatta...", le abbiamo detto qualche giorno dopo io, mio fratello e mia sorella mentre era nel suo letto, a casa, di ritorno dall’ospedale ma ancora positiva. Non ci siamo potuti toccare, abbracciare, stringere, accarezzare. Niente. Solo piangere da soli. A distanza. Con le mascherine, i guanti, i camici di plastica, bardati per evitare di contagiarci. Imprigionati in noi stessi, anche nel dolore. Senza neanche un funerale, con quella bara chiusa e sigillata senza che nessuno potesse fargli una carezza. Papà è morto il 6 novembre del 2020 all’ospedale di Perugia a causa del Covid. Erano passati otto mesi dall’inizio della pandemia, dalle tragiche immagini dei camion militari che a Bergamo trasportavano le bare lontano dalla Lombardia. La mia famiglia e gli amici di mio padre nelle settimane successive hanno donato all’ospedale saturimetri e altro materiale per ringraziare i medici e gli infermieri e curare chi si ammalava del virus. La disorganizzazione di quei giorni della sanità, in Umbria e in Italia, però me la ricordo ancora bene. E la rabbia a volte riemerge.

Cronaca

Roma, 19 marzo 2023 -&nbsp;Non ricordavo che ieri fosse la giornata dedicata alle vittime del Covid. L’ho scoperto dalla radio, mentre ero in auto. Ho fatto un bel respiro profondo e la prima cosa che mi è venuta in mente è stata la voce al telefono di mio padre. Era una decina di giorni che era ricoverato proprio a causa del (all’epoca) nuovo coronavirus, gli avevano messo il casco per respirare meglio e quando parlava al telefono si sentiva a fatica. 
Però, in uno sprazzo di spensieratezza, mi disse: "Hai visto che rigore hanno dato alla Juventus? Il solito regalo…". La mia risposta non fu immediata, perché gli occhi si riempirono di lacrime e lo stomaco si strinse: pensai che forse davvero stava meglio e ce l’avrebbe fatta. E così dissi: "Hai ragione, sono sempre i soliti". In quei giorni avevo scaricato un app per registrare e riascoltare le telefonate, anche quelle con i medici, per capirci qualcosa di più su ciò che succedeva. Ma volevo conservare la sua voce, la voce del signor Carlo, come lo chiamavano al lavoro. Quella telefonata andò persa e con essa le altre, compresa quella di quando il medico di turno mi annunciò che non ce l’aveva fatta, che il Covid se lo era portato via per sempre. 
Oggi mi sono riletto le ultime pagine della sua cartella clinica, quasi a volergli tenere la mano negli ultimi momenti, a capire cosa sia successo nelle ultime ore, perché ci abbia lasciato. Ripenso a quei giorni, alla fatica e al dolore di saperlo solo e spaventato, al suo volto cambiato: dopo tre settimane che era ricoverato senza potersi alzare, gli sarà cresciuta la barba, pensavo. Lui, che si radeva tutti i santi giorni. Chissà che faccia avrà avuto con la barba bianca. Poi mia mamma, che ieri ascoltando le testimonianze da Nembro in tv, ha iniziato a piangere. Anche lei era stata ricoverata negli stessi giorni in cui il papà era in Rianimazione. 
"Ho il Covid anch’io – ripeteva lei ai medici tra le lacrime – fatemi andare, voglio solo stringergli la mano". "Signora non si può mi spiace, ma non si preoccupi, andrò io a portarle i suoi saluti. Lo farò personalmente", le disse il primario per rincuorarla. Ma non bastarono a placare la sua disperazione. "Mamma, il babbo non ce l’ha fatta...", le abbiamo detto qualche giorno dopo io, mio fratello e mia sorella mentre era nel suo letto, a casa, di ritorno dall’ospedale ma ancora positiva. Non ci siamo potuti toccare, abbracciare, stringere, accarezzare. Niente. Solo piangere da soli. A distanza. Con le mascherine, i guanti, i camici di plastica, bardati per evitare di contagiarci. Imprigionati in noi stessi, anche nel dolore. Senza neanche un funerale, con quella bara chiusa e sigillata senza che nessuno potesse fargli una carezza. 
Papà è morto il 6 novembre del 2020 all’ospedale di Perugia a causa del Covid. Erano passati otto mesi dall’inizio della pandemia, dalle tragiche immagini dei camion militari che a Bergamo trasportavano le bare lontano dalla Lombardia. La mia famiglia e gli amici di mio padre nelle settimane successive hanno donato all’ospedale saturimetri e altro materiale per ringraziare i medici e gli infermieri e curare chi si ammalava del virus. La disorganizzazione di quei giorni della sanità, in Umbria e in Italia, però me la ricordo ancora bene. E la rabbia a volte riemerge. 
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