L’arma migliore di Zelensky è la narrazione

Gabriele

Canè

Anche se, come diceva Bennato, sono solo canzonette. Tutto questo per dire cosa? Che la popolarità, l’affetto, la partecipazione, sono componenti essenziali di un successo in un mondo mediatico e social. E Kiev, senza dubbio, è riuscita a coagulare attraverso questi canali il tifo di vaste fette delle opinioni pubbliche dell’Occidente, non per grazia ricevuta, o perché istintivamente si sta dalla parte del più debole. Semplicemente perché il più debole ha vinto a mani basse la guerra dei sentimenti.

Lo ha fatto (se non esagera) con le dirette di Zelensky che passeggia da solo per le strade della capitale, mentre da Mosca arrivano i soliloqui di Putin e dei suoi maggiorenti, le minacce nucleari di qualche ministro, la sfilata a passo dell’oca dell’Armata rossa, ora russa, sotto le cupole del Cremlino e davanti ai cadaverici generali pluri decorati. Lo ha fatto raccontando mille storie di dolore, mostrando il volto della morte, o il muso buffo di Patron, il cagnetto sminatore, che il presidente ucraino ha insignito di una medaglia per il "servizio fedele" davanti alle telecamere di mezzo mondo. Lo ha arricchito con Stefanìa, la canzone che ha vinto appunto l’Eurovision, una lettera d’amore a una madre dai capelli bianchi (Stefanìa) che il figlio vuol raggiungere "camminando per strade dissestate". Insomma, lo ha costruito usando le armi del racconto crudelmente vero, forse a volte forse forzato, e del sorriso.

Con la parola e le immagini, strumenti che può usare una democrazia e che un regime si nega. Con il risultato che l’Ucraina ha già vinto la guerra del feeling. Rendendo (si spera) più difficile alla Russia vincere quella del Donbass.