Venerdì 19 Aprile 2024

Eitan, l’ambasciatore e il bimbo rapito. "Israele non è la giungla senza leggi"

"Andai a trovare Eitan in ospedale e recitai la Torah tenendogli le mani sulla testa. Un miracolo la guarigione". Il rappresentante di Tel Aviv a Roma: la tragedia della funivia è stato il momento più duro del mio incarico

Dror Eydar

Dror Eydar

Roma, 15 settembre 2021 - "La tragedia della funivia del Mottarone è stato il momento più duro del mio incarico da diplomatico. Il pensiero del piccolo Eitan rimasto solo, unico a sopravvivere e senza i genitori, mi ha scosso profondamente". All’ambasciatore in Italia di Israele, Dror Eydar, 54 anni, scende un velo di tristezza sugli occhi appena si pronuncia il nome di Eitan. E non è cerimoniale diplomatico.

Ambasciatore, l’Italia si chiede cosa succederà ora a Eitan dopo che è stato portato in Israele dal nonno materno.

"Stiamo seguendo le famiglie, non posso entrare nei dettagli, ma posso garantire che Israele è uno Stato di diritto che si sta occupando di questa vicenda. Israele non è una giungla. La mia speranza è che si trovi una soluzione che faccia stare bene tutti e specialmente Eitan: ha sofferto già troppo".

Una famiglia in guerra: tutti i protagonisti della vicenda

Lei era corso a visitare Eitan in ospedale dopo la tragedia. Che ricordi ha di quelle ore?

"Eitan era ricoverato in rianimazione, sedato. Io provengo da una famiglia di sacerdoti e ho chiesto ai medici di poter recitare la nostra antica benedizione. Ho avvicinato le mie mani alla sua testa e ho recitato la Torah. Mentre pronunciavo le parole della Bibbia, dietro di me pregava anche il presidente della Regione Piemonte. Lo ricorderò per tutta la vita. Quando ci hanno annunciato che stava meglio, ho pensato che era un miracolo".

Eitan, il nonno agli arresti domiciliari in Israele

Italia e Israele affrontano lo stesso nemico, il Covid. L’Italia ha guardato con interesse il vostro approccio. È una collaborazione reciproca?

"Per tutti i mesi della crisi pandemica i nostri Ministeri della sanità sono stati in contatto costante, scambiandosi informazioni e strategie. Abbiamo anche inviato una nostra équipe di medici e infermieri dell’ospedale Sheba, uno dei migliori al mondo, in Piemonte".

Oggi in Italia si parla di terza dose come in Israele: è la scelta necessaria?

"Nell’ultima ondata abbiamo visto che le persone contagiate dopo la seconda dose erano soprattutto over 60enni perché gli anticorpi erano diminuiti. Così si è deciso di fare la terza dose ai più anziani. Il numero di positivi al Covid senza sintomi va considerato solo a fini statistici. Il vero problema è la pressione sugli ospedali: occorre diminuire il numero dei ricoverati".

Vaccinare è l’unica soluzione?

"La maggior parte delle persone sotto i 60 anni che sono gravi non ha fatto il vaccino. Significa che il vaccino funziona. In Israele è partita da poco anche la terza campagna di vaccinazione dai 12 anni in su. Abbiamo visto che il trend dei contagi così rallenta".

L’impressione è che Israele affronti il Covid con la stessa determinazione con cui affronta altri pericoli. È così?

"Qui entra in ballo la psicologia storica del nostro Paese. La nostra identità è scritta nel nome Israele, che fu dato a Giacobbe quando sconfisse l’angelo dopo 20 anni di esilio. Una nazione non ha bisogno solo di intellettuali, ma anche di combattenti. Il nome Israele significa: colui che ha combattuto gli uomini e Dio".

E questa consapevolezza incide anche nella lotta alla pandemia?

"Dopo l’esilio e l’Olocausto siamo uno Stato indipendente, abbiamo la forza per difenderci senza paura. Pronti a combattere sempre: la pandemia, come i nemici e i problemi interni. Li affrontiamo e abbiamo la capacità di risolverli da soli".

I problemi si affrontano senza aspettare aiuti esterni?

"Abbiamo imparato a trattare ogni problema come se fosse esistenziale. Così siamo capaci di reazioni rapide. Nel caso del Covid gli israeliani sono più ansiosi degli italiani, ma proprio questo ci spinge ad affrontare e risolvere rapidamente il problema. Non siamo l’America che può combattere guerre per anni. Sappiamo che dobbiamo affrontare subito i nemici e vincere rapidamente".

L’America ha lasciato l’Afghanistan dopo 20 anni, dando l’impressione che l’Occidente si sia arreso all’integralismo. Quale sarà la conseguenza?

"Il problema reale è che l’uscita dall’Afghanistan ha implicazioni per tutto il mondo, non solo per l’America. I più soddisfatti sono gli ayatollah a Teheran. Hanno capito che possono allargare la loro rivoluzione islamico-radicale e questo è oggi il maggiore rischio per tutto l’Occidente. Dopo 14 secoli si è formata una grande mezzaluna sciita, dall’Iran al Mediterraneo, passando per Iraq, Siria e Libano. Il pericolo sono i sogni di grandezza dell’Iran".

E perché sono un pericolo per l’Occidente?

"Gli ayatollah odiano l’Occidente, lo considerano un’entità malata anche se l’Occidente tratta con loro senza capirli. Come quando l’Europa non capiva chi fosse Hitler negli anni Trenta. Non si sottovalutano le dichiarazioni dei dittatori. Perché hanno bisogno della bomba atomica? L’Europa non si chiede perché l’Iran sviluppi missili con un raggio di tremila chilometri che possono colpire tutto il continente".

L’Iran è sciita, i talebani sono sunniti. Perché Teheran dovrebbe festeggiare la loro vittoria?

"Il problema è l’Islam politico, non la religione. La madre di tutto è la rivoluzione islamica del 1979".

Anche la Turchia ha subito una svolta integralista con Erdogan.

"A volte Erdogan parla come un integralista ma la Turchia è uno stato moderno, fa parte della Nato, e anche se ci sono stati momenti di tensione, Turchia e Israele hanno rapporti profondi. La Turchia non è l’Iran".

Secondo lei è possibile esportare la democrazia?

"L’Occidente adora il Logos, la razionalità, la scienza. Ma nell’altra parte dell’umanità conta il Mythos, la religione, la tradizione. La democrazia è Logos. L’Occidente pensava di esportarla in Iraq, con i diritti umani, ma non ha tenuto conto che opposti ai valori occidentali ci sono i valori del Mythos, e in più una storia millenaria. Non è facile scambiare i valori antichi con la democrazia".

Ma la convivenza è possibile?

"L’Europa ha perso il senso religioso tradizionale e le sue élite hanno abbandonato il nazionalismo. Ma oggi l’Europa è diventata un’arena dove gli islamici, con una tradizione religiosa e un senso nazionale forti, si confrontano con una cultura priva di tutto questo, che non ha neppure uno scudo per difendersi. Le organizzazioni terroristiche islamiche si concentrano contro Israele perché è l’avamposto del mondo occidentale e perché in Israele convivono una fede antica e un senso nazionale ebraico forte".

Israele si aspetta qualcosa di più dall’Italia sul piano internazionale?

"L’Italia è il Paese preferito in Europa dagli israeliani. C’è una grande collaborazione, lo scorso giugno ad esempio ci sono state esercitazioni congiunte in Puglia tra la nostra e la vostra aviazione e per la prima volta i nostri F35 sono usciti da Israele. Però vorremmo che questa collaborazione si riflettesse anche nell’arena internazionale".

In che modo?

"Ogni volta che all’Onu si mette in scena un teatro dell’assurdo contro Israele, con risoluzioni che spesso sono contrarie all’idea stessa dell’esistenza di uno Stato ebraico, l’Italia si astiene. Non vota contro o a favore, ma si astiene. Non lo capiamo. Siamo amici, noi voteremmo contro una risoluzione che condanna l’Italia".