Martedì 23 Aprile 2024

La vita non può diventare perenne sfida

Giuseppe

Catozzella

Il fiocco rosso in casa, il ristorante prenotato, il viaggio per premiare la laurea. Immagino Riccardo, come deve essersi sentito, non solo il giorno prima della discussione della tesi che non c’era, ma tutti gli anni del corso di studi. Come deve avere convissuto con un ospite sempre più insopportabile, un’ombra che gli ricordava che avrebbe dovuto essere chi non era, la distanza tra la vita reale in cui era riuscito a dare solo qualche esame e le aspettative dei genitori pronti a premiarlo per aver esaudito (almeno per il momento) le loro proiezioni sulla sua vita. La povera mamma oggi dice di sentirsi in colpa per non aver capito che Riccardo "indossava una maschera" per non deluderli.

Di recente sono stato in Corea, dove il tasso di suicidi tra i giovani è da anni il più alto dell’area Ocse: circa cinquanta al giorno, un numero impressionante. Dopo l’ondata che ha investito anche giovanissime star del cinema e della musica è nato un dibattito non pubblico (il suicidio è tabù) ma accademico. L’opinione è che c’è una correlazione tra l’impressionante crescita economica degli ultimi cinquant’anni, l’elevatissima competitività che ha generato e l’infelicità. Viene in mente il discorso del ‘68 di Kennedy sul rapporto tra Pil e felicità: "Non troveremo mai un fine per la nazione, né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico. Il Pil misura tutto eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta".

La felicità, o uno dei suoi sfuggenti volti, si potrebbe chiosare, forse risiede nell’infischiarsene di un’immagine sociale prefabbricata: il buon lavoro, il benessere, una pioggia di like sui social. Forse risiede soltanto nell’accettare chi siamo, con tutti i nostri limiti. E nel cucire le aspettative sulle fragilità di coloro che generiamo. Suona molto semplice, lo so. Eppure funziona.