La vita, la morte e la libertà di scelta

Roberto

Giardina

A Londra hanno staccato la spina a Archie, il ragazzino di 12 anni, dal sette aprile in coma irreversibile. I genitori, Hollie e Paul, denunciano: lo hanno ucciso. Inutili i ricorsi, anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo. I giudici hanno dato ragione ai medici: Archie era clinicamente morto dal 31 maggio, respirava solo grazie alle macchine. Il padre e la madre avevano sperato di trasferire il figlio in Italia, dove si era disposti ad assisterlo.

Mi ripugna emettere sentenze, dire che cosa sia giusto o sbagliato in nome di altri. Devo chiedermi quale sarebbe stata la mia decisione. Io salverei la dignità di un figlio, di un genitore, della persona a cui voglio bene. Non vorrei che continuasse a sopravvivere come un vegetale. E, nell’ipotesi che avesse un barlume di coscienza, la sopravvivenza sarebbe un inferno. Ma rispetto chi non la pensa come me. La fine di Archie non è paragonabile all’eutanasia. Il malato è ancora in grado di comunicare se vuole vivere o evitare sofferenze inutili. E al suicidio assistito. Togliersi la vita è difficile, spesso atroce. Alcuni che possono pagare vanno in Svizzera. In Gran Bretagna, l’eutanasia è punita come l’omicidio. Staccherei la spina, lo sostengo, perché vorrei che fosse staccata anche a me. Ho voluto togliere questa responsabilità, e un rimorso, a chi mi ama.

In Germania, ho firmato il documento in cui preciso cosa fare e cosa no, se fossi un malato terminale, dieci cartelle dettagliate consegnate al mio medico della mutua a Berlino. È una pratica comune, la legge tedesca lo consente. Non vorrei essere vittima di terapie ossessive, né dell´amore senza speranza di chi mi è vicino. Anche Papa Wotyla, quando fu ricoverato al Gemelli, ordinò ai medici di non tenerlo in vita a tutti i costi. Non si teneva in vita Archie, si negava la sua morte.