Sabato 20 Aprile 2024

La vita l’è bela... ma va presa con ironia. "Io e Renato inimitabili: non abbiamo eredi"

L’attore racconta i ruggenti anni Settanta: "Con Pozzetto inventammo un linguaggio nuovo. Siamo diversi, ma tra noi mai un litigio". Le serate milanesi con Gaber, Fo e Jannacci. Poi il grande successo in tv. "Vi racconto com’è nata la gag della gamba alzata"

 Cochi e Renato

Cochi e Renato

Milano, 18 ottobre 2020 - Perché cinquant’anni fa la vita era così ‘bela’? "Perché eravamo agli inizi e non immaginavamo che le cose sarebbero andate tanto bene. Perché eravamo giovani e frequentavamo persone straordinarie come Fo, Buzzati, Fontana e Manzoni. Perché respiravamo un clima culturale che ci ha aiutati a crescere e a sviluppare le nostre doti".

Cochi Ponzoni (Aurelio all’anagrafe) parla volentieri dei magici Settanta, quando lui e Renato (Pozzetto) hanno dimostrato all’Italia della tv che esisteva un altro modo di far ridere, magari più stralunato e surreale ma assolutamente irresistibile.

Nessuna nostalgia, però. "Sto bene – dice lui, 79 anni, tre mogli, quattro figlie e quattro nipoti – Ho avuto una vita fortunata e gli anni non mi pesano. Aspetto che i teatri riaprono per ripartire di nuovo in tournée".

I formidabili anni di Cochi e Renato sono tornati adesso d’attualità grazie a un cofanetto (titolo, ovviamente, E la vita l’è bela) contenente quattro cd che ripercorrono tutta la carriera musicale della coppia, da La gallina a La canzone intelligente con remix e inediti. "È un progetto che abbiamo scoperto a cose fatte – dice lui – ma che contiene anche pezzi che nemmeno io ricordavo. Canzoni improvvisate, magari nate da sproloqui con Jannacci, che non pensavo fossero state registrate".

Cochi, togliamoci subito il sassolino: ma con Renato avete mai litigato?

"Ma no, è una diceria inventata dai giornali. È successo che a un certo punto abbiamo preso strade diverse per poi ritrovarci. Quando lui ha iniziato a far cinema con Per amare Ofelia, io giravo Cuore di cane con Lattuada... Abbiamo sempre fatto lo stesso mestiere, ma con vocazioni diverse. Ci conosciamo da bambini, siamo cresciuti insieme, le nostre famiglie sono sempre state amiche".

Vi ha aiutato avere interessi diversi?

"Certo, lui ha sempre posseduto uno spirito imprenditoriale, io sono più attratto dalle curiosità. E soprattutto io ho sempre voluto fare la prosa. L’ho scoperto nel 1972 a Spoleto quando interpretammo La conversazione continuamente interrotta. Flaiano, che era autore del testo, era terrorizzato perché veniva dal tonfo di Un marziano a Roma con Gassman. E invece andò tutto benissimo e io decisi che avrei fatto lo scavalcamontagne in teatro".

Perché, da Franchi-Ingrassia a Ficarra-Picone, funziona la coppia comica?

"Perché affonda le radici nella storia dello spettacolo o, se si guarda al passato prossimo, dell’avanspettacolo. Per noi è diverso: con Renato c’è sempre un’intesa che nasce dai tempi della scuola".

Come cominciaste?

"Al Cab 64, un locale di Milano, dove passavano gli artisti e gli scrittori del tempo. Andavamo in giro fra le gallerie d’arte e i bar di Porta Romana e di Brera. Una sera do un passaggio a casa a Lucio Fontana e lui mi dice di salire perché mi vuole regalare un quadro come ringraziamento. Avevo fretta e ho rifiutato. Se ci penso adesso, mi mangio le mani".

È lì che conosceste Enzo Jannacci?

"Certo, il nostro terzo fratello. È stato lui a darci l’input per cominciare, a sostenere le nostre scelte. In quel periodo andavo a lezione di chitarra a casa di Giorgio Gaber che allora scriveva canzoni per la sua fidanzata Ombretta Colli. Eppoi c’era il Derby, il locale di Lauzi, Toffolo, Andreasi.... Enzo, a un certo punto, disse che bisognava vedere la swinging London e partimmo insieme io, lui e Renato in tenda. Che viaggio...".

Il botto arrivò nel ‘68 in tv con Quelli della domenica?

"Un successo incredibile che ci cambiò la vita. Fu Marcello Marchesi a imporci in tv, mentre Maurizio Costanzo portò Villaggio. Non capivamo bene quello che ci stava succedendo ma decidemmo di lasciare un segno durante le nostre esibizioni per farci ricordare dal pubblico. Nacque così la gag della gamba destra alzata. Probabilmente la copiammo da qualche sketch di Dario Fo".

Ma è vero che a un certo punto la credettero morto?

"È un episodio che ho raccontato a Paolo Rossi quando sono tornato dopo molti anni in tv a Su la testa e che lui ha divulgato. Mentre mi trovavo in un negozio a Trieste una commessa mi ha guardato sbiancando e dicendomi: ‘Ma lei non era morto?’".

Quei tormentoni come A me mi piace il mare e Bene bravo sette più da dove nascevano?

"Dalla strada. Le nostre canzoni e le nostre scenette hanno sempre filtrato quello che coglievamo in giro. Facciamo parte della grande palestra del ‘nonsense’ dove si sono esercitati maestri come Campanile e Ionesco".

Ha detto che non avete eredi. Perché?

"Perché il nostro linguaggio non ce l’ha nessuno e di quella comicità continuiamo a mantenere il copyright. Ci sono ottimi cabarettisti, ma non paragonabili a noi visto che la comicità deve stare al passo con i tempi. Comunque chi si esprime in modo genuino, senza volgarità o banalità, ha il successo garantito".