Giovedì 25 Aprile 2024

La versione di Casini: riforme solo condivise. L’interesse nazionale è il bene più prezioso

Il senatore ricorda tutti i tentativi di avviare il cantiere istituzionale. Dalla commissione Bozzi alle due bicamerali, una storia a ostacoli. Ma la chiave necessaria è il dialogo serio tra forze politiche distanti

Silvio Berlusconi e Massimo D'Alema nel 1996

Silvio Berlusconi e Massimo D'Alema nel 1996

Sono stato eletto per la prima volta in Parlamento nel 1983. Ho quindi vissuto direttamente tutti i percorsi di revisione costituzionale tentati fino ad oggi, sia quelli che hanno seguito l’iter ordinario previsto dall’articolo 138 della Costituzione, sia quelli affidati alle tre commissioni bicamerali istituite ad hoc: Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema.

La scelta di promuovere un procedimento in deroga a quello ordinario è stata dettata da ragioni diverse e, se rapportate alle contingenze di allora, tutte condivisibili. Innanzitutto, con la commissione bicamerale si intendeva favorire una discussione ampia e concentrata su oggetti complessi e tra loro strettamente intrecciati: forma di Stato, forma di governo, sistema delle garanzie, bicameralismo. Inoltre, si riteneva che l’intesa fra i gruppi politici fosse più facilmente raggiungibile in un consesso creato ad hoc piuttosto che nelle commissioni parlamentari, dove le dinamiche contingenti della dialettica politica potevano prevalere e compromettere l’esito della discussione e del confronto. Infine, la creazione di una commissione ad hoc esaltava il ruolo dei massimi esperti in materia costituzionale di ciascun gruppo, garantendo il più alto livello di approfondimento tecnico su progetti di modifica della legge fondativa della nostra Repubblica.

Sappiamo che nessuno dei tre esperimenti, che pure hanno segnato passaggi fondamentali nei processi di innovazione istituzionale del nostro Paese, ha avuto esito positivo. Alla luce della mia esperienza diretta, credo che però il loro fallimento non sia dovuto all’inadeguatezza dello strumento, ma piuttosto al contesto storico-politico e per ragioni estranee alle specifiche istanze di revisione.

Commissione Bozzi

La commissione Bozzi, istituita nel 1983 e presieduta da un insigne giurista di cultura liberale, era oggettivamente troppo debole, in quanto concepita come commissione di studio, priva di poteri referenti nei confronti delle assemblee parlamentari. Il concreto avvio dell’esame parlamentare dei progetti di riforma era sostanzialmente rimesso all’iniziativa dei gruppi politici, che allora non raggiunsero un sufficiente accordo. Il lavoro svolto dalla commissione, pregevole sotto il profilo tecnico-giuridico, confermava la scelta costituente per la forma di governo parlamentare, limitandosi a prospettare interventi di pura razionalizzazione del sistema esistente. Posso dire che quello non fu un esperimento significativo, forse perché non erano ancora maturi i tempi per affrontare, con maggiore incisività, il tema del possibile mutamento della forma di governo.

De Mita-Iotti

Dieci anni più tardi, nel 1993, nel corso di una legislatura fortemente segnata da Mani pulite e dalla deflagrazione del sistema dei partiti così come si era definito nel secondo dopoguerra, fu esperito un nuovo tentativo con una commissione bicamerale, la cui presidenza fu affidata a due personalità di altissimo rilievo, Ciriaco De Mita e Nilde Iotti, espressione delle due più grandi famiglie politiche del Novecento. Rispetto alla precedente, la commissione De Mita-Iotti aveva poteri più incisivi: la legge istitutiva aveva introdotto un procedimento di revisione costituzionale derogatorio rispetto a quello dell’articolo 138, attribuendo direttamente alla commissione poteri referenti rispetto alle assemblee di Camera e Senato e semplificando l’iter di esame. Inoltre, il progetto, a prescindere dal quorum con il quale sarebbe stato approvato, doveva essere sottoposto obbligatoriamente a referendum confermativo, al fine di ottenere una legittimazione diretta dal corpo elettorale.

Quella commissione lavorò alacremente, nonostante o forse propria in risposta al clima di sfiducia che stava crescendo nei confronti dei partiti. Credo che ci fosse da parte di tutti la consapevolezza di dover recuperare sul terreno delle riforme, attraverso una rinnovata intesa tra le forze politiche, una nuova legittimazione della politica e delle istituzioni. La commissione infatti concluse i suoi lavori e presentò, dopo meno di due anni dalla sua istituzione, un organico progetto di revisione riguardo la parte seconda della costituzione, che le Camere non riuscirono ad approvare in ragione dell’anticipata e traumatica conclusione della legislatura. Quel progetto conteneva un’ampia riforma del rapporto Stato-Regioni e la definizione di una forma di governo neoparlamentare, che contemplava l’investitura diretta, da parte del Parlamento, del primo ministro, attribuiva a quest’ultimo l’esclusiva responsabilità sulla nomina e la revoca dei ministri e introduceva l’istituto della cosiddetta sfiducia costruttiva.

Fu una soluzione vissuta da ciascuno di noi quale punto di equilibrio tra l’esigenza di preservare la forma di governo parlamentare, valore fondante l’ordinamento repubblicano, e la necessità di garantire stabilità all’esecutivo, rendendolo adeguato a governare i processi della modernità, tanto più in una fase storica di grande avanzamento dell’integrazione europea, consacrata con il trattato di Maastricht. Ricordo l’esperienza come foriera di grandi speranze e di fiducia nella capacità del sistema politico di rigenerarsi e recuperare il rapporto, che appariva compromesso, tra rappresentanti e rappresentati.

Bicamerale D’Alema

La terza commissione bicamerale per le riforme, quella presieduta da Massimo D’Alema, fu, a mio avviso, l’esperienza più riuscita. Certamente le premesse erano positive, perché era figlia di una stagione di ritrovato vigore della politica, nella quale si stavano affermando nuove istanze di rinnovamento. Mai come in quella fase storica, una riforma costituzionale condivisa poteva servire a dare legittimazione ai nuovi attori della politica e alle esigenze di cambiamento e modernizzazione che provenivano dalla società e dal tessuto produttivo del Paese.

Partecipammo con impegno e determinazione ai lavori della Commissione che, dopo sei mesi di intensa attività, resa proficua dalla collaborazione di tutte le forze politiche, varò un testo importante sulla forma di Stato, sulla forma di governo, sul sistema delle garanzie costituzionali, sulle autonomie. La novità più rilevante fu l’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica, che però conservava funzioni di garanzia. La proposta conteneva anche modifiche importanti alla composizione e alle funzioni dei due rami del Parlamento. Il patto politico tra i leader D’Alema e Berlusconi, che fu all’origine della bicamerale e garanzia di un esito positivo, alla fine si ruppe, determinando il fallimento dell’intera esperienza, solo in parte recuperata dalla riforma del Titolo V, approvata al termine della legislatura. Probabilmente fu proprio l’esito fallimentare di quella bicamerale a indurre i successivi protagonisti della vita politica ad abbandonare il percorso di commissioni ad hoc e tornare alla ordinaria procedura di revisione definita dall’articolo 138. Effettivamente i due più importanti progetti di modifica organica della Costituzione, quello voluto dal centrodestra nella XIV legislatura e quello del centrosinistra nella XVII, esaminati secondo il procedimento ordinario di revisione, sono stati approvati definitivamente dal Parlamento, seppure poi entrambi bocciati con il referendum.

Tutte queste esperienze, che ho vissuto dall’interno delle Aule parlamentari, mi confermano nella convinzione che non sia tanto la formula, né il metodo prescelto a decretare il successo dell’intera esperienza, quanto la forza del patto politico che è all’origine del processo e la volontà di giungere a una soluzione il più possibile condivisa anche tra forze politiche distanti, tale da garantire le maggioranze e le minoranze di oggi e di domani, ma soprattutto l’interesse della comunità nazionale.