La tragedia del Morandi L’ex manager di Autostrade: "Sapevo del rischio crollo Era il 2010, non feci nulla"

Genova, il processo per l’incidente con 43 morti e l’ammissione di Gianni Mion. Era l’uomo di fiducia della famiglia Benetton: "Emerse un difetto di progettazione". La rabbia del Comitato per le vittime: "Come ha fatto a restare zitto?".

di Giovanni Rossi

"Il ponte aveva un difetto originario di progettazione, era a rischio crollo". Ci sono tragedie che non passano mai. Perché non possono e non devono. Il collasso del ponte Morandi coi suoi 43 morti, il 14 agosto 2018, rimbomba ancora una volta nel tribunale di Genova. Accade quando Gianni Mion, uomo di fiducia della famiglia Benetton, ex ad di Edizione (holding della dinastia veneta), ex consigliere di amministrazione di Autostrade per l’Italia e della sua ex controllante Atlantia, riconosce in aula che tutti i vertici aziendali sapevano. "Era il 2010. Non ho fatto nulla – ammette il manager, in aula come testimone dell’accusa – ed è il mio grande rammarico". Parola infinitamente tenue nel caso di una tragedia enorme.

È un’udienza dai contenuti drammatici quella in cui Mion si assume la responsabilità della propria inazione e, peggio, descrive la disattenzione di tutti i vertici aziendali preposti, l’implicita connivenza affaristica di controllori e controllati dopo l’innaturale acquisizione di Spea deputata alle verifiche di stabilità della rete Aspi. "Un errore", lo definisce Mion: "La società doveva stare in ambito Anas o del ministero, doveva rimanere pubblica. Il controllore non poteva essere del controllato". Dubbi già emersi nelle intercettazioni: "C’era un collasso del sistema di controllo interno ed esterno, del ministero non c’era traccia. La mia opinione è che nessuno controllasse nulla".

Il manager ripercorre quelle "periodiche riunioni con i management delle varie società. Erano riunioni importantissime (...), con limiti, ma sufficienti a dare visione completa. Ho un vivissimo ricordo. C’erano Castellucci (ndr, ad di Atlantia) e Mollo (ndr, dg di Aspi, imputato). Io, che pure non sono un tecnico, chiesi: “C’è una certificazione di un agente esterno sulla percorribilità del ponte?“". Domanda non evitabile perché "c’erano dubbi" espliciti che il viadotto sul Polcevera "potesse stare su", conferma Mion ribadendo sia le dichiarazioni a suo tempo rese alla Guardia di finanza sia la trovata di Mollo: "Autocertifichiamo". "Io purtroppo non replicai – rievoca Mion –, ma quella risposta mi terrorizzò. Cosa vuol dire autocertificarsi? È una contraddizione". Ammissione che, sommata alle precedenti, scatena la rabbia dei familiari delle vittime.

"Sapete dove mi trovo adesso? – racconta Egle Possetti, presidente del comitato parenti – Sono al cimitero, a portare i fiori alla mia famiglia che era su quel ponte e che non c’è più, per questo non ero in aula, ma c’erano i nostri legali". Attacca Mion: "Non è che, dal punto di vista morale, questa persona possa essersi liberata. Una persona con il suo ruolo non poteva stare zitta": anzi, le parole pronunciate "non fanno che confermare quanto fosse approfondita la conoscenza dello stato del ponte da parte di chi avrebbe dovuto prendere decisioni sulla sua chiusura e sulle manutenzioni".

Possetti prende fiato e prova a immaginarsi nel cda di Aspi: "Se avessi saputo qual era lo stato delle infrastrutture avrei fatto il diavolo a quattro per far emergere il problema. Ci sono ancora troppe omissioni e troppa omertà, e questo noi come parenti non lo possiamo accettare. Perché non si può stare zitti quando si ha tra le mani una informazione di tale gravità". Segue auspicio per il processo appena entrato nel vivo: "Basta vittime innocenti. Speriamo solo che qualcuno paghi e sia di esempio", si augurano i parenti delle vittime, scioccati della deposizione.