La Speranza di un’autocritica che non c’è

Gabriele

Canè

Il caso Speranza (per ora) è chiuso, e non poteva essere altrimenti. O si apriva e chiudeva al cambio di governo, come in effetti è accaduto, oppure tanto valeva, e tanto vale, andare avanti così: comunque si giudichi il lavoro del ministro, operazione legittima come da mozioni di sfiducia respinte ieri in Senato. Atti di accusa politici, certo, ma che entravano nel merito della sua azione. E qui il discorso cambia. Perché se il caso Speranza è "socchiuso", resta ben aperto il caso virus, cioè l’analisi su come è stata gestita questa tragica emergenza, che tale non avrebbe più dovuto essere dopo l’ondata della primavera scorsa, in Italia e non solo. Il che, guardando in casa nostra, né ci consola, né ci assolve come ha fatto il ministro, da cui era lecito aspettarsi qualche spazio di autocritica. Pazienza, sarà per la prossima sfiducia.

Adesso resta una realtà in cui è chiaro che non tutto è andato bene, sia per colpe della cabina di regia nazionale, non a caso cambiata, a parte Speranza, da capo a piedi da Draghi, sia per le deficienze delle Regioni. Che con i fondi stanziati in estate dovevano allestire nuovi reparti, ad esempio, e non l’hanno fatto, mentre Arcuri doveva assumere sanitari per le vaccinazioni, e lo ha fatto solo a Natale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: come e peggio del 2020, la necessità di concentrare le (insufficienti) risorse umane e logistiche sui malati di Covid, ha frenato in parte lo tsunami del virus, ma ha quasi azzerato tutte le altre terapie, interventi, ricoveri, esami. Nessuno poteva prevedere un susseguirsi così devastante di ondate? Forse. Un piano pandemico aggiornato e un migliore uso delle risorse, forse sì. Per questo, sconfitto il male, bisognerà capire dove e chi ha sbagliato, e porre mano a una sanità adeguata alle emergenze. Perché il caso non è chiuso. Oggi è il Covid-19, domani, forse, cambierà solo il numero.