Il Pd di Bonaccini, la sfida per il rilancio: vocazione maggioritaria e spirito riformista

Il governatore emiliano si candida a segretario del partito. La sua proposta punta a tenere insieme le varie anime. "Di alleanze parleremo solo dopo aver definito la nostra identità"

Stefano Bonaccini

Stefano Bonaccini

Un po’ del Renzi rottamatore, un po’ del Veltroni movimentista, molto Bonaccini. Senza l’irridente sfacciataggine del primo, senza i voli kennediani del secondo ma con la concretezza emiliana di un amministratore solido che tenta di dare lo stesso scrollone a un partito fermo, rivolto all’indietro, diviso sul da farsi, riserva di caccia per i segugi terzopolisti o contiani a seconda dei giorni. In ogni caso, un partito esangue.

Stefano Bonaccini sceglie casa sua per lanciare la sfida al Pd e in fondo anche a se stesso, se è vero quanto diceva Togliatti degli emiliani "bravi ad amministrare ma non a guidare un partito", non nascondendosi le difficoltà dell’impresa ma non per questo precludendosi l’ambizione di dare al Pd una leadership "nuova", "moderna" come dice lui, e nello stesso tempo ben definita. L’opposto di quella di adesso. Una sfida sostanzialmente riformista, ma di un riformismo pragmatico perché trae la sua linfa più che dall’ideologia dalla fatica del confronto quotidiano con i problemi delle persone. Amministrare è stare al passo con i tempi perché le persone e le realtà cambiano. La realtà è riformista.

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Il modello di partito che Bonaccini ha in mente è molto chiaro, ed è diverso da quello che è stato negli ultimi anni. È un partito "a vocazione maggioritaria" (cit. Veltroni) che va al governo "solo perché ha vinto le elezioni" al contrario di quanto fatto dai capicorrente dem, è un partito che crede nella necessità di "nuova classe dirigente" (cit. Renzi). Un partito che punta su un deciso ricambio, non solo generazionale. Elly Schlein, la competitor, è più giovane di Bonaccini quindi il governatore sa di non potersi giocare la carta dell’età, quanto quello del mondo "vecchio" che esprime le singole candidature. Ecco l’invettiva contro le correnti, ecco la sua insistenza nel rimarcare il non essere l’alfiere di alcuna, "alle quali non ho mai appartenuto", e soprattutto il tentativo di non passare come espressione della sola Base riformista, gli ex renziani. Quelli sono mondi dove ancora vige la vecchia sindrome comunista del "nemico in casa", e ora come ora se nel Pd sei amico di Renzi è peggio che avere la lebbra.

Nel suo manifesto di ieri, Bonaccini ha prudentemente evitato di soffermarsi su concetti troppi divisivi (la guerra, il presidenzialismo) ma ha avuto il coraggio di affrontarne altri che nella sinistra rappresentano ancora nervi scoperti, non banali. Il valore della leadership, per esempio, che la sinistra rifiuta ("siamo una comunità", dice la Schlein e quelli con lei) e di cui invece lui, e il mondo riformista, non nascondono l’importanza; la necessità di un messaggio comunicativamente "semplice", l’urgenza di accostare i "doveri" insieme ai "diritti" (come recita la Costituzione); le alleanze, sulle quali la sinistra interna si interroga in continuazione mentre egli rimanda a un secondo momento ("ne parleremo dopo aver definito il nostro profilo"). In fondo le politiche sono tra cinque anni, paradossalmente dopo la scadenza della prossima segreteria Pd, e chissà con che sistema istituzionale o legge elettorale ci arriveremo.

Bonaccini in sostanza avanza un modello che è valorialmente ben definito, finalmente, che però non è "chiuso", e che se dovesse vincere le primarie si propone come punto di sintesi per le varie anime dem. Per quanto riformista nei contenuti, molto più "potabile" per tutti rispetto alle altre opzioni in campo, quelle sì che possono dare corpo ai fantasmi delle cotrapposte scissioni.

Il punto di caduta è infatti lui. Parlerà pure di leadership, di vocazione maggioritaria, di "doveri" oltre che di "diritti", ma il suo profilo non è certamente tra quelli inaccettabili dalla sinistra interna. Bonaccini, nel 2009 bersaniano, ha parlato da Campogalliano, nel circolo dove aveva iniziato da iscritto al Pci, e quelli sono i posti del vecchio core business del Pci-Pci, nel cuore del triangolo rosso, e dove i militanti della Ditta ancora sanno riconoscersi tra loro (peraltro: messaggio alla Schlein che vuol diventare segretario senza essere mai entrata in una sezione).

Bonaccini appare così come l’ultima occasione per il rilancio, o la salvezza, di un’esperienza politica sin qui fallimentare, come altrimenti non sarebbe possibile definire il disastro dei voti persi dalla sinistra in pochi anni (nel 2001 Ds e Margherita erano a quota 12 milioni, gli stessi del Pd di Veltroni, ridotti a cinque dal Pd di Letta due mesi fa). Apparentemente tutto facile, ma l’esperienza insegna che il tafazzismo della sinistra spesso non ha limiti.