La sfida di una nuova accoglienza

Gabriele

Canè

Con loro non c’è stato bisogno di approfondimenti tecnici, di visti temporanei: lo status lo ha stabilito subito il cuore della gente, degli italiani che stanno aprendo le loro case, i circoli, le parrocchie. Uno slancio corale, spontaneo, uguale e contrario alla crudeltà cieca delle bombe su case e persone che fino a pochi giorni fa vivevano in pace, come noi, con il pensiero di arrivare alla metropolitana per andare al lavoro, non per trovare rifugio dalle cannonate. Ogni giorno che passa, però, l’impegno umanitario che ci troviamo di fronte appare completamente diverso da quelli affrontati fino ad ora. Soprattutto perché la stragrande maggioranza dei profughi sono donne e bambini, un esodo mai visto in modo tanto rapido e massiccio.

Allora, possiamo raccontarci finché vogliamo che non esistono i generi, salvo che la vita ci mostra realtà diverse: che non possiamo mettere 50 donne con i loro piccoli nella camerata di un hub come 50 ragazzi arrivati su un barcone; che queste donne hanno esigenze e cicli vitali specifici; che molte allattano, qualcuna è incinta, parecchie sono anziane con la necessità di essere badate e non di badare. Che i loro figli devono poter giocare, studiare, integrarsi. Perché è chiaro nei loro occhi e nei loro discorsi il desiderio, la certezza, di tornare presto a casa. Ma quando? E ci saranno ancora le loro case, i loro uomini, il loro Paese? Difficile dire se e come. È quindi evidente che occorrerà un nuovo, duraturo, modello di accoglienza. Che sta nascendo spontaneamente giorno dopo giorno, ma che andrà strutturato, finanziato. È questo il fronte che ora siamo chiamati a consolidare. La sfida che per l’Ucraina non possiamo non vincere.