"La scuola si fa solo a scuola". Vecchioni: riportiamo i ragazzi in classe

Il cantautore prof: "Capisco le proteste contro la didattica a distanza. Si diventa uomini stando assieme, non davanti a uno schermo"

Roberto Vecchioni, giovane prof, con la sua classe

Roberto Vecchioni, giovane prof, con la sua classe

"I ragazzi mica sono scemi, lo sanno bene qual è la scuola e certe proteste contro la didattica a distanza non mi stupiscono affatto" ammette Roberto Vecchioni parlando delle fibrillazioni che traversano il mondo dell’istruzione. "Questi studenti li trovo intelligenti, bravi e pieni di emozioni che bisogna solo tirargli fuori. Per loro la scuola è una seconda casa, quella in cui si cresce e si diventa uomini stando assieme agli altri. D’altronde ‘scholé’ in greco significa tempo libero, uso piacevole delle proprie capacità intellettuali". In attesa che la "maledetta notte" piombata sulla vita delle persone con la pandemia finisca, il Professore rimette la scuola al centro del suo viaggio letterario con Lezioni di volo e di atterraggio, il volume in cui spiega il senso dell’apprendimento e la sfida culturale che ne deriva nell’ "aggirare l’ovvio, non ripetere il risaputo, bucare il tempo, aprire strade, sondare il possibile, il parallelo, l’alternativo".

Il bollettino Covid del 20 novembre

Lei dice che la scuola è al 90% regola, obbligo, serietà e programmi. E quel 10% ...?

"Quel 10% è ciò di cui parlo nel libro. Il volo che ci porta in altro e poi necessariamente a terra. Le ‘giornate di follia’, in cui tu prendi i ragazzi e li porti fuori dalle aule non per insegnargli chimica, geografia o latino, ma per spiegare loro com’è l’uomo. Quelle in cui li conduci nella grande casa dell’umanesimo, fatta di stanze collegate fra loro perché è naturale abitarle tutte. La cultura, infatti, non ha paratie stagne e libera l’uomo dall’ovvio e dal luogo comune consegnandogli valide fondamenta emotive e spirituali".

La formazione offerta oggi dalla scuola italiana è su questa linea o no?

"No, non è più su questa linea. Perché i tempi sono cambiati e in giro c’è una grande urgenza di apprendere le tecniche, senza conoscere la base della storia e del pensiero. Impari come si combatte un virus o come si costruisce un ponte, ma poi non sai collocare quel virus o quel ponte all’interno della storia dell’uomo. Insomma, sappiamo i come, ma non i perché".

Tornando alla Dad e all’impennata dei contagi, secondo lei riaprire le scuole è stata una necessità o un’imprudenza?

"È stata una scelta etica, logica, anzi obbligatoria direi. Il personale scolastico quest’estate ha fatto un grandissimo lavoro, tentando ogni strada percorribile per riprendere le lezioni in presenza. Non si poteva rinunciare a priori, perché la scuola non è guardare uno schermo. La scuola non è fatta di materia, ma di persone. E finalmente qualcuno l’ha capito. Quindi il tentativo del Ministero di ripristinare una vita regolare è stato giusto".

Che opinione s’è fatto, della gestione della pandemia?

"Secondo me non siamo in mano a scriteriati, ma a gente che monitora la situazione e prende provvedimenti di conseguenza. Gente che magari ha fatto degli errori, ma ha cercato di fronteggiare gli eventi come poteva. Sono convinto che forze politiche diverse avrebbero fatto magari sbagli diversi, ma ne avrebbero fatti comunque, perché in circostanze del genere è nella logica delle cose".

Nella vita di tutti i giorni ha bisogno di maggior credibilità il professore o il cantautore?

"Un insegnante deve essere necessariamente credibile, mentre il cantautore può esserlo forse un po’ meno, perché nell’espressione artistica c’è sempre un po’ di enfasi e quindi una punta di finzione".

Lei dice che la cultura non è sapere, ma cercare. Cosa ha cercato in questo anno bisesto che più bisesto non avrebbe potuto essere? E cosa ha trovato?

"Credo che quasi tutti abbiamo provato di conoscerci un po’ di più. Quando si va di fretta non c’è tempo per chiederci chi siamo veramente. La pandemia, invece, questo tempo ce l’ha lasciato. ‘Lezioni di volo e di atterraggio’ è il frutto anche di questa introspezione ritrovata, fatta di ricordi dolci, ma anche orrendi, di amicizie che hai tradito, di persone che hai fatto soffrire. A me, ad esempio, è capitato di cercare di una persona per chiederle scusa dopo quarant’anni".

San Siro, la nebbia e le luci. Cos’è cambiato mezzo secolo dopo?

"Praticamente tutto. Rimane, però, la sacralità del luogo; i miei Lari e i miei Penati, come dicevano i romani, sono a Milano. E i simboli che proteggono con la loro forza la vita delle persone non si abbattono. Non voglio che buttino giù lo stadio, l’hanno già fatto con l’ippodromo e ho provato un dolore tremendo. Mi considero un decadente romantico, quindi per me, quella gioia primitiva è sempre viva".

Per il quarantennale, ha ripubblicato un suo stralcio di vita quale ‘Montecristo’.

"Sono contento perché è un album a cui ho voluto molto bene, anche se racconta la storia tragica della fine di un amore: quello per la mia prima moglie. ‘Montecristo’ è un disco in cui trovano spazio amici come Finardi, Venditti, Dalla, raccontato con l’accorgimento che uso in tutti i miei album: cercare di non farmi riconoscere".

Mai avuta la tentazione di dire ‘basta, come hanno fatto Guccini o Fossati?

"No, mai. Ma capisco entrambi. Una volta De André mi disse una frase oscura e tremenda: non si muore finché si ha qualcosa da dire. Non è stato il suo caso, purtroppo, ma finché Fossati continuerà a scrivere canzoni e Guccini romanzi che arrivano al Campiello non potremo che rallegrarci di poter godere di tanto bene".