Martedì 23 Aprile 2024

La psicologa e le vittime dell’orrore. "Il male esplode il secondo giorno"

La dottoressa Pezzuolo assiste la ragazza che ha denunciato lo stupro di Genovese: sono come terremotate. "Il malessere non passa e arriva spesso il senso di colpa. Per salvarsi serve una rete di sostegno"

Un’assemblea pubblica ’Non una di meno’ contro la violenza sulle donne

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Il giorno dopo sembra uguale a tutti gli altri. Verranno poi lo stomaco chiuso e l’insonnia. Il senso di colpa e la vergogna. Il giorno dopo il corpo non manda ancora segnali. E l’anima vuole continuare a dormire. La casa non è crollata, non è successo niente. Profumo di caffè dalla cucina, i passi di mamma e papà. Ieri sera la festa, la gente. E quindi il buio. C’è stato un terremoto, le macerie sono un puzzle da costruire poco alla volta. Per chi trova il coraggio di farlo. Da Milano arriva la notizia dell’arresto di Antonio Di Fazio: violenza sessuale, sequestro di persona e lesioni personali aggravate nei confronti di una ragazza di 21 anni, forse non la prima vittima dell’imprenditore. Sara Pezzuolo è la psicologa forense che interroga il sismografo in casi come questi: con delicatezza si fa strada dentro l’amnesia, prova a dare voce a chi l’ha persa. È stata al fianco della 18enne che ha denunciato di essere stata drogata e stuprata dall’imprenditore Alberto Genovese. Sa che il giorno dopo non è uguale per tutte. Ma per tutte vale la metafora del terremotato: perdita di contatto con la realtà, paura di andare a vedere cosa è successo.

Dottoressa, dunque il primo passo per la vittima di quel tipo di violenza è la rimozione.

"Tecnicamente no. C’è rimozione quando mi rendo conto di qualcosa, realizzo la sua gravità e per salvarmi dimentico. Attenzione: dimentico perché ricordo. In questi casi non c’è proprio la percezione di cosa sia successo. Può essere dovuto all’assunzione di alcol o droga, ma non sempre. Poi con il passare dei giorni arrivano le domande, si cercano di capire la ragione del malessere. E qualcuna inizia ad avere paura di cosa andrà a scoprire".

Preso atto del terremoto lo si accetta?

"La parola accettazione è un abominio. Non si accetta mai, non si può. Si elabora. Ma sono necessari il tempo, a volte l’ausilio farmacologico. E una rete di sostegno, dentro cui l’errore più grande è compiangere. Ma ogni caso è un caso a sé, come nel lutto, dove ciascuno reagisce a seconda della personalità. Chi ha fatto cosa? Che tipo di relazione c’era fra la vittima e chi ne ha abusato? Il senso di colpa è sempre in agguato se è stato uno sconosciuto: me la sono andata a cercare. Altrimenti ecco la frustrazione, la delusione di non avere capito".

Ci sono segnali che dovrebbero scoraggiare dall’andare a una festa con quello lì?

"Non esiste il modello di chi abusa. Diciamo che in molti si riscontrano il bisogno di controllare le situazioni, tratti di stampo narcisistico, rituali di natura ossessiva".

E le vittime hanno tratti comuni?

"Giovani, con un’identità tutta da costruire, facili alle scorciatoie. Dire fragili è riduttivo perché in realtà si credono invulnerabili. Ma poi hanno bisogno di un riconoscimento esterno per essere sicure di esistere. Creature alla ricerca di ciò che saranno. In genere senza un ’contenitore famiglia’, che è il segno di tempi privi di autorevolezza e senso del limite. Avere genitori che ti impongono il coprifuoco a mezzanotte o che nemmeno sanno se torni a dormire fa la differenza".

Lo sa cosa si dice fuori dai tribunali: se vai in certi posti e con certa gente te lo devi aspettare.

"Inammissibile in un Paese civile. Io la chiamo vittimizzazione secondaria, un’altra forma di violenza. Come se in un processo di mafia l’imputato fosse Falcone e non Riina. Ci si appiglia a sminuire la gravità del reato cercando una sorta di concorso di colpa e così qualcuna nemmeno denuncia perché ha paura e si vergogna. Su questo insisto: bisogna farlo per se stesse. E se non ci si vuole abbastanza bene perché non accada ad altre".