La “praivasi“? Finisce davanti a un “mi piace“

Giorgio

Comaschi

Scusa non fotografare, ci tengo alla praivasi“. “La foto di classe? Eh no, non permetto che sia divulgata, la praivasi di mia figlia...”. “Ecco, adesso le faccio la fattura per questo acquisto, ma prima mi firma il documento per la praivasi?”. Parliamoci chiaro. La privacy (che rendiamo meglio con praivasi) è un fenomeno strabiliante. Intanto diamo la definizione: “Il diritto alla riservatezza delle informazioni personali e della propria vita privata, cioè uno strumento posto a salvaguardia e a tutela della sfera privata del singolo individuo”. Quindi tutti a cercare morbosamente questa praivasi. Ma come? C’è qualcosa che non quadra. Pretendiamo la praivasi ogni due secondi e poi postiamo su Facebook e su Istagram foto delle nostre cose più intime, angoli reconditi della casa, letti, bagni dove il bimbo fa la cacca (e quindi foto del bimbo), scorci di giardino, nonne scaccolanti, cene, pranzi, foto e videini di tutto quello che mangiamo, di come ci laviamo i denti, bimbi che giocano col cane, gatti che giocano coi bimbi, ragazze in mutande davanti allo specchio che si fanno selfie. Un trionfo. Il trionfo appunto della famosa “praivasi”.

Facciamo vedere la nostra vita a tutti e tutti mettono “Mi piace”. Compreso i ladri, che ottengono piante dettagliate delle nostre case senza nessuna fatica. La praivasi? Immolata sull’altare dei social. Ci pensiamo solo quando ci viene in mente, o quando ce la chiedono nei documenti. Poi, quando nei ristoranti o nei luoghi che frequentiamo, ci chiedono i dati per essere tracciati nel caso si prospettino casi di Covid, ci rifiutiamo sdegnosamente. “No, io i miei dati non li do. Ma dov’è la praivasi?”. Siamo comici spaventati guerrieri (dal titolo di un libro di Benni) lanciati verso il nulla. E le telecamere? E quelli che ci chiamano ogni due minuti sul numero privato per offrici promozioni telefoniche? Ah no, ragazzi! Io ho il diritto alla mia praivasi! (Risate di sottofondo, come nelle sit-com brutte).