Ne ha fatta di strada il figlio del sarto di Nusco. Dallo sperduto paesino dell’Irpinia profonda e abbandonata degli anni Cinquanta-Sessanta a Palazzo Chigi sul finire degli Ottanta, passando per la Cattolica di Milano. Ne ha fatta di strada Ciriaco De Mita nell’Italia della ricostruzione e del boom economico, quando l’ascensore sociale funzionava più di oggi e anche un ragazzo del Sud più lontano e depresso, come allora si diceva, poteva aspirare, attraverso lo studio e la politica, a diventare il rappresentante della sua terra in Parlamento, fino a conquistare quel doppio incarico (presidente del Consiglio e segretario della Dc) che nella Balena bianca era stato sempre o quasi un tabù, perché significava essere l’uomo più potente d’Italia. Tant’è che non fu perdonato neanche a lui. Ciriaco, come lo chiamavano i tanti amici, o il Presidente De Mita, per i meno intimi, non c’è più. E c’è ben poco da stupirsi se a distanza di qualche decennio dall’uscita di scena del leader politico che, con Bettino Craxi e nel duello, anche antropologico, con lui, ha caratterizzato gli anni Ottanta, la sua morte ha un’eco tanto vasta nel Palazzo e fuori. Raccontare De Mita significa, non a caso, raccontare tre cifre che permeano l’uomo e il politico. Innanzitutto il rapporto con il territorio. Anche nella proiezione nazionale, De Mita si sente sempre profondamente e visceralmente legato all’Irpina, ad Avellino e alla sua Nusco: è morto da sindaco ultranovantenne del suo paese. Ma non è da meno il senso della squadra: non si è mai percepito come uomo solo al comando e, anzi, ha contrastato senza risparmio la deriva personalistica della politica (da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi). E nella sua squadra, quella della sinistra di base democristiana post Marcora e post Moro, il capo di Piazza del Gesù dell’ultimo decennio della ...
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