Lunedì 22 Aprile 2024

La pandemia di cui non parla nessuno

Michele

Brambilla

Se ne parla quando si arriva alla tragedia, come l’altro giorno, quando una bambina di dieci anni di Palermo s’è ammazzata, involontariamente, seguendo a quanto pare una folle sfida che va di moda sui social, il Black out challenge: ci si stringe una cintura o una corda al collo per vedere fino a quando si resiste. Ma poi, appena finita l’eco della cronaca, ci si torna a disinteressare degli uppercut che lo smartphone piazza al cervello di bambini e adolescenti.

Eppure anche questa è una pandemia. I casi in cui si finisce morti soffocati sono per fortuna rari; anche quelli in cui si resta imbrigliati in una rete di pedofili (sia pure più frequenti) non toccano la maggioranza dei piccoli frequentatori di social. Ma il danno neurologico, il gap nella capacità di apprendimento, l’aumento dell’aggressività, ecco tutto questo è purtroppo la norma. Non c’è un solo neuropsichiatra che abbia dubbi sulle conseguenze subite dal sistema nervoso centrale dei bambini e degli adolescenti che fanno dello smartphone un’appendice del proprio corpo. Una dirigente della Polizia Postale, da noi intervistata ieri, ha detto che i genitori debbono parlare con i figli per metterli in guardia, mentre "vietare l’uso dei telefonini, questo no, non è possibile". Con tutto il rispetto, penso che abbia ragione il senatore Andrea Cangini, ex direttore di questo giornale, il quale sostiene che dare un telefonino a un bambinoadolescente e spiegargli che lo deve usare con parsimonia è come dare un etto di cocaina a un tossico con la raccomandazione di consumarne il meno possibile. E guardate che non parliamo a caso di cocaina: i neuroscienziati sostengono che gli effetti clinici dell’abuso di social e videogiochi sono gli stessi.

Ci sarebbe poi da aggiungere che, ormai da un pezzo, i figli non obbediscono più ai genitori. Ma di questo magari riparleremo presto.