Mercoledì 24 Aprile 2024

La mummia di Lenin e il suo ultimo segreto

Lo studio di due ricercatori italiani sul leader comunista smentisce l’avvelenamento: "Morto per problemi circolatori dovuti all’arteriosclerosi"

Migration

di Andrea Cionci

Sulla morte di Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, circolano da 97 anni le più disparate dicerie: si è parlato di sifilide, di un’intossicazione dovuta al piombo dei due proiettili ricevuti nell’attentato del 1918 (e rimossi solo quattro anni dopo), ma soprattutto di un avvelenamento da parte di Stalin, di lui invidioso. Un recentissimo studio dei paleopatologi Francesco Galassi e Raffaella Bianucci, condotto insieme all’anatomopatologo Andreas G. Nerlich, fa ordine nel marasma degli studi e delle supposizioni mettendo a fuoco la vera causa della morte. Il padre della Rivoluzione bolscevica e dell’Unione sovietica, passò a miglior (?) vita il 21 gennaio 1924, a soli 53 anni, ma non fu mai sepolto, contro la sua volontà.

Sottoposto ad autopsia e a un’imbalsamazione provvisoria, rimase esposto al pubblico, in un mausoleo temporaneo, dal 27 gennaio fino al 26 marzo 1924, quando furono notati i segni di un avanzato processo di decomposizione.

Dopo mesi di discussioni ininterrotte, su disposizione di Stalin, fu deciso di imbalsamare definitivamente il corpo di Lenin, affidando il compito ai dottori Vorobiev e Zbarsky. Ecco perché la ricerca italiana di cui trattiamo è stata pubblicata sul prestigioso Handbook of Mummy Studies, sorta di catalogo mondiale delle mummie, punto di riferimento per la letteratura scientifica del settore.

Dopotutto, le salme sottoposte a imbalsamazione hanno sempre catturato la fantasia anche dei non addetti ai lavori: nella loro forma apparentemente incorrotta, esse rappresentano, a un tempo, il simbolo dell’effimera esistenza terrena e il sogno dell’immortalità.

La mummia di Lenin è conservata ancor’oggi nel Mausoleo sulla Piazza Rossa di Mosca: Putin ha voluto lasciar tutto com’era, in quanto essa fa parte della storia russa, anche se rappresenta un’ideologia che in 100 anni ha prodotto 100 milioni di morti in tutto il mondo, "infliggendo alla civiltà occidentale una ferita quasi fatale", come scrive l’esperto di storia sovietica David Satter sul Wall Street Journal. Eppure, c’è chi ha avanzato proposte originali: analogamente a quanto fu chiesto in Francia per la Gioconda, il leader del Partito Liberal-Democratico russo Vladimir Zhirinovsky, l’anno scorso, propose di vendere la mummia per ripianare i costi dell’emergenza Covid.

Comunque sia, tra le tante ipotesi fatte sull’imbalsamazione di Lenin, è stato considerato anche l’aiuto da parte di esperti stranieri, tra cui il palermitano Alfredo Salafia, imbalsamatore della famosa Rosalia Lombardo, la bimba di due anni che si conserva da ben 101 anni, splendida e incorrotta, nelle Catacombe dei Cappuccini di Palermo. Tali congetture, però, non sono supportate da alcuna documentazione scientifica.

Il Vorobiev utilizzò un metodo di conservazione che prevedeva l’immersione del corpo in una soluzione di glicerina, acetato di potassio e alcool, ma i processi conservativi che affrontò, in seguito, la mummia del rivoluzionario furono numerosi e complessi, tanto da sedimentare un’ampia letteratura che racconta anche delle sue patologie.

Grazie a questa mole di studi, Galassi e i suoi colleghi hanno potuto individuare la causa di morte più realistica per Lenin: problemi circolatori di natura arteriosclerotica con probabile base genetica familiare.

Sarebbe fondamentale, ora, condurre uno studio sulle sue sezioni cerebrali conservate all’Istituto del Cervello di Mosca, ma per adesso è impossibile. La degenerazione neurologica di Lenin è ben documentata e si sa di come, ormai incapace di esprimersi a parole, fosse ridotto all’uso della sedia a rotelle, inducendo molti a credere che la sua fine fosse prossima.