Giovedì 18 Aprile 2024

La mesta vita cui ci siamo (quasi) abituati

Cade in questi giorni il mesto anniversario della più grande pandemia che abbia mai colpito il nostro Paese, almeno per quanto riguarda le attuali generazioni. Erano gli ultimi di gennaio e i primi di febbraio quando si ebbe notizia dei primi casi di coronavirus in Italia (ancora nessuno usava, nel parlato comune, il termine Covid). Alcuni esperti ci rassicurarono: è poco più di una brutta influenza. Sono gli stessi esperti che poco dopo avrebbero cominciato a occupare le tv per ricordarci che dobbiamo morire. Nessuno di noi, comunque, poteva ancora immaginare che la nostra vita quotidiana sarebbe stata rivoluzionata come mai era successo, in precedenza, nell’arco di un solo anno.

Non parlo tanto del lockdown totale di primavera: quella sembrava ancora una misura eccezionale, di breve termine. Parlo della vita che conduciamo oggi, in questo tempo così uguale ormai da mesi e mesi. Mai avremmo immaginato di aspettare ogni venerdì i colori delle regioni per sapere se le settimane a venire saranno di detenzione o di semidetenzione (anche la libertà vigilata ci è per ora negata). Di poter andare al ristorante solo in certi periodi e in certe zone e solo a pranzo. Di non potere andare al cinema e a teatro. Di non poter circolare dopo le ventidue. Di non potere spostarsi fra regioni e in certi casi neanche fra comuni. Di non potere andare in palestra. Di vedere i ragazzi chiusi in casa tutte le mattine perché perfino le scuole e perfino le università sono chiuse, e quando un Paese chiude le scuole e le università la libertà viene a mancare come il respiro.

Mai ci saremmo immaginati di non poter più stringere mani, né poter abbracciare e baciare; mai ci saremmo immaginati di vedere nel nostro prossimo, con sospetto, un potenziale pericolo. Mai ci saremmo immaginati che la mascherina sarebbe diventata un indumento ineliminabile come l’intimo e forse qui - solo qui - riesco perfino a trovare qualcosa di bello, perché abbiamo almeno imparato a guardarci negli occhi, quando prima era così raro trovare qualcuno che quando ci parlava riusciva a fissarci negli occhi senza abbassarli o volgerli altrove. Oggi non c’è altro varco per entrare nelle persone che incontriamo: è vietato il tatto, è impedito l’olfatto, è negato il volto ma almeno ci sono gli occhi, e gli occhi portano dentro l’anima. Non so voi, ma ho l’impressione che se un anno fa ci avessero predetto tutto questo saremmo rimasti sgomenti, ma ora un po’ ci siamo abituati. Forse, quando tutto questo sarà passato, alcune delle abitudini di questo tempo non le vorremo e non le potremo abbandonare perché l’uomo si è sempre abituato a tutto, dall’età delle caverne in poi. Lamentandoci, ma ci abituiamo a tutto. Cioè, non proprio a tutto: a qualcosa no.