La maturità si misura anche scrivendo

Elena

Ugolini

Giocare sempre delle “amichevoli” non permetterebbe mai di mettersi alla prova veramente. La lettera firmata da molti docenti universitari che chiede al Ministro dell’Istruzione di reinserire anche gli scritti all’esame di maturità pone un problema molto serio. Da due anni la commissione d’esame è composta unicamente da commissari interni e un presidente esterno, così il rischio che l’esame diventi una ripetizione di quello che si è già fatto durante l’anno, con le stesse persone, è evidente. Proprio perché siamo in un momento di difficoltà, in cui il futuro dipenderà da quel che saremo molto più che da quel che avremo, è essenziale far capire ai ragazzi quanto siano importanti l’impegno e il desiderio di mettersi alla prova personalmente, realizzando “un lavoro ben fatto” e accettando anche la sfida di un giudizio esterno. Che cosa sono, infatti, un’analisi di un testo letterario, un problema di matematica, una traduzione, se non il tentativo di creare “la propria opera”, utilizzando gli strumenti che si sono acquisiti e i propri talenti?

Se l’esame non serve per le ammissioni all’università e non ha nessun valore estrinseco, perché non farlo diventare un momento articolato, significativo e conclusivo di un percorso di studi? Come si fa a valutare il cammino pluriennale di uno studente in una sola prova orale di un’ora? La maturità dovrebbe consentire al candidato di esprimersi in diversi modi per evitare che il giudizio sia ridotto solo ad un’unica tipologia di prova, quella orale, che potrebbe essere condizionata da emotività o limiti caratteriali. Normalmente i primi ad aver paura dell’esame sono i docenti, che vivono la valutazione dei propri allievi come un esame fatto a loro. Sarebbe importante che proprio gli insegnanti fossero i primi a guidare i giovani verso una prova di cui non devono avere paura. Penso sia questo il primo modo per evitare che si ingrossino le fila dei terrapiattisti.