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Sorride per nascondere il male che sente, la mamma di Jason Dupasquier. Apparentemente distante, per sopportare l’insopportabile. Dà il senso di quella lucidità che, sull’immediato, spesso presiede i grandi dolori. "Il mio bambino", dice senza retorica parlando di suo figlio, il motociclista diciannovenne che ha perso il filo della pista alla curva dell’Arrabbiata 2, al Mugello. E che poi travolto da due colleghi che non hanno potuto evitarlo, ha cominciato a lasciare questo mondo. Andrea è bella, giovane, forte. "Ora cosa importa?". Forse mai. "Ora meno". Non piange ma si vede che è su un altro pianeta. È al policlinico di Careggi solo con il corpo, l’anima è stata sparata da un razzo in qualche altrove, la ritroverà poi. Con lei c’è il marito, ci sono gli amici, gli altri parenti che aspettano. Minuti che ormai hanno perso la speranza: le sei ore previste per l’accertamento di morte sono quasi scadute. Jason non c’è più. L’intervento, lo stent impiantato per fermare l’emorragia massiva nella notte, non è bastato. Il ragazzo aveva avuto un arresto cardiaco. Il corpo martoriato. "Siamo partiti con 700 chilometri da fare, l’unica cosa a cui pensavo era arrivare prima possibile per stare vicino a lui". Sapeva che le condizioni di suo figlio erano gravissime? "Avevamo avuto qualche informazione. Che Jason sarebbe entrato in sala operatoria. Mai avrei pensato a una cosa così. Credevo che dopo l’intervento saremmo rimasti qualche giorno qua e poi saremmo tornati a casa. E no...". Non può più coccolarlo. "È così". Questo sport è pericoloso, avevate mai parlato dei rischi? Di smettere? "Certo. Anche quando Jason ha cominciato c’è stato un compagno che è morto. E quasi tutti gli anni uno o due muoiono. Quindi ne avevamo parlato. E tante volte abbiamo detto stoppiamo, basta, ma Jason e anche suo fratello Brian ...
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