Dupasquier, la madre straziata: era il mio bimbo. "Ucciso dalla sua passione per le moto"

Andrea Dupasquier piange il figlio Jason scomparso: "Anche il fratello 16enne corre. Continuerà? Vedremo"

Andrea Dupasquier (a sinistra), madre del pilota morto all'ospedale di Careggi

Andrea Dupasquier (a sinistra), madre del pilota morto all'ospedale di Careggi

Sorride per nascondere il male che sente, la mamma di Jason Dupasquier. Apparentemente distante, per sopportare l’insopportabile. Dà il senso di quella lucidità che, sull’immediato, spesso presiede i grandi dolori. "Il mio bambino", dice senza retorica parlando di suo figlio, il motociclista diciannovenne che ha perso il filo della pista alla curva dell’Arrabbiata 2, al Mugello. E che poi travolto da due colleghi che non hanno potuto evitarlo, ha cominciato a lasciare questo mondo. Andrea è bella, giovane, forte. "Ora cosa importa?". Forse mai. "Ora meno". Non piange ma si vede che è su un altro pianeta. È al policlinico di Careggi solo con il corpo, l’anima è stata sparata da un razzo in qualche altrove, la ritroverà poi. Con lei c’è il marito, ci sono gli amici, gli altri parenti che aspettano. Minuti che ormai hanno perso la speranza: le sei ore previste per l’accertamento di morte sono quasi scadute. Jason non c’è più. L’intervento, lo stent impiantato per fermare l’emorragia massiva nella notte, non è bastato. Il ragazzo aveva avuto un arresto cardiaco. Il corpo martoriato.

"Siamo partiti con 700 chilometri da fare, l’unica cosa a cui pensavo era arrivare prima possibile per stare vicino a lui".

Sapeva che le condizioni di suo figlio erano gravissime?

"Avevamo avuto qualche informazione. Che Jason sarebbe entrato in sala operatoria. Mai avrei pensato a una cosa così. Credevo che dopo l’intervento saremmo rimasti qualche giorno qua e poi saremmo tornati a casa. E no...".

Non può più coccolarlo.

"È così".

Questo sport è pericoloso, avevate mai parlato dei rischi? Di smettere?

"Certo. Anche quando Jason ha cominciato c’è stato un compagno che è morto. E quasi tutti gli anni uno o due muoiono. Quindi ne avevamo parlato. E tante volte abbiamo detto stoppiamo, basta, ma Jason e anche suo fratello Brian che corre e ha 16 anni, dicono sempre “Se devo morire morirò sulla mia moto“. È una passione e con la passione la ragione non può nulla".

Si è arresa alla passione e li ha lasciati liberi di viverla.

"È così".

Anche il fratello Brian ha 16 anni e corre.

"Abbiamo tre ragazzi. Una figlia di 23 anni, Jason e Brian che ha 16 anni. Corre anche lui. Ma da due settimane è fermo perché si è fatto male alla testa e non ha potuto partecipare alla gara di Le Mans per la North European Cup".

Continuerà?

"È una passione. Vedremo".

Tutti piloti, in casa.

"Suo padre ha fatto la motocross per venticinque anni e anche Jason ci provò ma non era uno sport che gli piaceva, aveva un po’ paura dei salti. Poi una volta mio marito cominciò un nuovo campionato in Germania con la Ktm e un dirigente chiese a Jason se voleva provare le moto di velocità, ha cominciato così che aveva cinque anni e mezzo: gli piaceva tantissimo".

Con la velocità non si è fermato più.

"Dopo lui ha fatto tanti campionati e siamo arrivati fino al campionato del mondo".

Avete visto la gara?

"No, io no. Mio marito sì, io avevo un corso di spiritualità".

Ora l’aiuterà almeno un po’ ad affrontare il dolore più tremendo per un genitore.

"Un po’. Dopo siamo partiti e siamo venuti qui. Abitiamo in Svizzera, vicino a Friburgo".

Il padre è sempre dentro al mondo delle moto?

"Sì, prima in gara, ora è rimasto nel mondo, fa il dirigente, segue i ragazzi e un amico di Jason che è rimasto in gara".