Martedì 23 Aprile 2024

La Leonessa del tennis e il nemico più duro. "Ho vinto la partita della vita: sono rinata"

Francesca Schiavone, la prima italiana ad aggiudicarsi un titolo del grande Slam racconta in un libro la sfida contro il linfoma: la chemio e la guarigione. "Io, abituata a lottare, mi sono scoperta fragile. Quando mia sorella ha letto il referto ho pianto, ma ho portato a casa il match"

Francesca Schiavone

Francesca Schiavone

Conosce la frase di Ion Tiriac, il tennista romeno degli anni ‘70 ora banchiere e manager miliardario? Tiriac diceva: nella vita come nel tennis, tutto quello che puoi prendi al volo. Ci si ritrova? (risata). "Molto carina, però non è il mio caso. Non prendo mai un treno purché sia, ho sempre deciso con cura il vagone prima di salirci su. Se non mi convince resto in stazione, aspettando il successivo. Ne ho lasciati passare molti prima, figuriamoci adesso che ho quarant’anni e sono diventata una donna più ponderata, razionale. Mi rendo conto di averle smontato l’intervista però la verità è questa".

Eccola qui Francesca Schiavone, milanese, detta la Leonessa. Il genio e la classe al potere, la prima italiana a vincere un titolo del grande Slam: Parigi 2010, data storica. Una così non cade nella trappola delle domande precotte. La sua risposta può diventare imprendibile, come quelle riservate alle avversarie sul campo. Non a caso è stata la numero quattro del mondo. Non a caso il suo rovescio a una mano non trovava uguali. Non a caso ha appena battuto il nemico più subdolo e cattivo: il linfoma di Hodgkin.

Francesca, che partita è stata?

"Dura, difficile. Assolutamente imprevista. Avevo deciso di smettere con il tennis giocato, decisione comunque difficile. Però ero carica, mi appassionava l’idea di fare l’allenatrice. Tanto ancora da offrire, dopo una vita con la racchetta in mano a colpire palline. E invece è arrivato questo tumore".

Perché ha deciso di ritirarsi due anni fa?

"Non riuscivo più a esprimermi alla maniera di Francesca. E’ complicato spiegare come funziona un giocatore: nello sport non hai il tempo di pensare, fai solo scelte immediate. Studi la tattica in anticipo, prepari così bene la partita che durante il match vai in automatico. Io invece ero attraversata da sensazioni che esulano dalla realtà del campo. Come se mancasse l’accelerata che permette di superare chi hai di fronte".

Un problema mentale. E fisicamente?

"Facevo fatica. In allenamento avevo bisogno di pause ogni quarto d’ora, roba mai successa prima. Ho pensato: hai 38 anni, è arrivato il momento di smettere. A posteriori ho capito che mi stava arrivando addosso qualcosa a cui proprio non pensavo".

Come ha reagito quando ha saputo della malattia?

"È stata mia sorella Virginia a leggere il referto. Beh, ho pianto. Mi sono chiesta: che cosa sta succedendo al mio corpo? Non potevo controllarlo, non avevo più alcun potere su di lui".

E poi?

"E poi cominci le cure. Tra una seduta e l’altra hai il tempo di pensare, una cosa che sul campo era impossibile. Affronti il nemico, lo accetti, fai di tutto per combatterlo. Senza retorica ma con la forza di volontà. Ho cercato di portare a casa la partita, come sono stata abituata a fare".

Quanto era grande la sofferenza?

"La chemio è una brutta bestia. Le vene bruciano, hai le braccia illividite dalle flebo. Ti sale la nausea: non vedi l’ora che il dolore passi".

Ma la Leonessa è abituata a lottare. Come quella volta agli Australian Open: era il 2011, giusto?

"Una battaglia incredibile con Svetlana Kuznetsova, giocatrice russa eccezionale. Un punto io, uno lei, vantaggio mio, vantaggio suo. Il pubblico credeva che saremmo andate avanti all’infinito. Ho vinto dopo 4 ore e 44 minuti: record di durata per il tennis femminile".

Ha avuto la tentazione di gettare la spugna e sciogliersi sotto una doccia bollente?

"Dopo il match mi trascinavo, perfino camminare era una tortura. Negli spogliatoi il massaggiatore mi ha spinto nella vasca d’acqua ghiacciata. I piedi facevano pena. Ho guardato le dita: sotto le unghie c’erano grumi di sangue, dall’alluce al mignolo. C’è voluta un’ora e mezza per pulirle con l’ago, un po’ alla volta".

Questo è accaduto nella sua prima vita: c’era una volta una bambina con un sogno grandissimo nel cuore?

"Un chiodo fisso. Volevo diventare una campionessa e vincere il Roland Garros: ci pensavo ogni notte prima di addormentarmi e ce l’ho fatta. Carattere, disciplina, talento, lavoro, lealtà, fiducia in te stesso, voglia di arrivare: devi mettere tutte le risorse in campo. Il tennis rende le persone migliori, vale la lezione di Al Pacino in Ogni maledetta domenica: il gioco è puro ed è tutto. Noi veterane lo sappiamo, le giovani devono impararlo. This is sport ho ripetuto invano a una avversaria che mi aveva rubato un punto, in uno degli ultimi incontri".

Poi è cominciata la seconda vita: chi l’ha aiutata nella difficoltà?

"La famiglia come sempre ha fatto. Mia madre, che ha avuto un male simile al mio e mi ha spiegato che perdere i capelli non è la fine del mondo. Mio padre, che mi ha spronata dicendomi: mi faccio rasare a zero anch’io. E mi ha fatto bene pregare. Quante volte ho mormorato al buio: se supero questo momento, prometto prometto prometto...".

Gli amici le sono stati accanto?

"Ho cercato di non mostrare la mia fragilità. Mi vergognavo. Sono stata zitta, con il cappellino in testa a nascondere una debolezza che forse vedevo soltanto io".

A fine percorso ha scritto un libro intitolato La mia rinascita. Perché?

"Per la regola del 5, il numero del destino. Ho vinto Parigi il 5 giugno 2010, quando ho baciato la terra rossa. Ho chiuso con il tennis il 5 settembre 2018. Ho fatto l’ultima chemio il 5 novembre 2019. E dopo un mese, il 5 dicembre, è arrivato il verdetto dei medici: il linfoma non c’era più. Una gioia totale, assoluta. Ho creduto che potesse servire raccontare la mia storia".

Ha paura che la malattia torni?

"Sì, a volte. Capita all’improvviso. Devo fare le analisi e invece rimando, rimando. Poi capisco che è meglio andare, mi preparo e vado".

Che cosa si aspetta ora?

"Ho imparato a stare nel presente. Ho aperto sui Navigli un bistrot che si chiama Sifà: buon cibo, olio e vino. Sapori che mi piacciono. La terza vita comincia da lì, il resto si vedrà".