La fuga Usa da Kabul è un’infamia

Cesare

De Carlo

A Day of Infamy, proclamò Franklin D. Roosevelt all’indomani di Pearl Harbor. Era l’8 dicembre 1941. Il giorno prima, senza dichiarazione di guerra, i giapponesi avevano distrutto la flotta americana del Pacifico. Poi ce ne furono altri due di giorni infami. 30 aprile 1975, gli ultimi elicotteri con grappoli di fuggiaschi si levano dal tetto dell’ambasciata americana di Saigon. E 11 settembre 2001, attacco di Al Qaeda a New York e Washington. Il quarto cadrà il 31 agosto 2021. Ritiro degli americani dall’Afghanistan. Gli alleati sono già fuori. Perché infame? Giudicate voi. In Afghanistan abbiamo combattuto una guerra concepita male e condotta peggio. Sciagurata la strategia, l’escalation, che Bush junior aveva mutuato da Kennedy. Illusorio l’accordo di pace.

Era probabile, anzi sicuro che i talebani non l’avrebbero rispettato, come i nordvietnamiti non rispettarono l’accordo negoziato da Kissinger nel 1973. Quella di Biden è una fuga più che un ritiro. Trasforma in sconfitta la pur legittima invasione americana dell’ottobre 2001 dopo il duplice attacco terroristico. E infine riconsegna al Medioevo islamico un’intera popolazione, esattamente come 46 anni fa i vietnamiti del sud furono abbandonati alle purghe comuniste. C’erano alternative? Risposta: oggi no. Ieri, cioè vent’anni fa, sì. Quando si fa la guerra usare la massima forza – sentenziò Bush senior per il Kuwait – e non legarsi un braccio dietro alla schiena.