di Ettore Maria Colombo Il 4.5 a Genova (la città di Grillo). Il 4.0 a Taranto (patria delle battaglie sull’Ilva). Il 7.6 a Palermo (grande successo del 2018). E l’1% (uno per cento) a Padova. I risultati del M5s a queste elezioni comunali sono così tragici, e imbarazzanti, che la scelta più saggia è stata quella, peraltro compiuta in molti casi (L’Aquila, Catanzaro, Parma, Verona ecc.) di non presentarsi affatto. Il resto è disfatta totale. L’ironia perfida di Matteo Renzi si fa sentire subito e fa male: "Con queste elezioni Italia Viva sorpassa i Cinquestelle come numero di sindaci eletti (ormai un centinaio), ma soprattutto pone le basi per sorpassare i Cinquestelle come voti alle prossime politiche. Lasciamo loro i sondaggi". Ora, al netto del fatto che, in Parlamento, i numeri dicono, ancora oggi, l’esatto opposto (i 5s valgono il 30% degli eletti e Iv poco più del 2%) resta, in prospettiva, il punto: conviene, per il Pd, allearsi con i 5s? Il dibattito ferve. Giuseppe Conte incassa quelli che definisce, con un eufemismo, "risultati non soddisfacenti", riconosce che "il M5s non riesce a stare sui territori", accusa "resistenze interne che hanno rallentato la nostra azione" (forse ce l’ha con Di Maio?), ma assicura che "il dialogo con il Pd non è compromesso e il campo progressista è invalicabile. Noi non andremo mai con la destra". In effetti, in casa dem, di tenerlo in piedi se ne fanno un vanto anche perché – è la strategia del Nazareno – "le destre non ci faranno altri regali. Alle politiche andranno uniti e solo il campo largo può batterli. Farlo è una necessità. Uniti si vince. No ai veti". A tal punto che uno dei suoi alfieri, il responsabile Enti locali dem, Francesco Boccia, invita ad aspettare "per commentare i voti ...
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