Venerdì 19 Aprile 2024

La busta paga dei precari dev’essere più pesante

Raffaele

Marmo

In una stagione di incertezza e di scarsa visibilità anche sul futuro più prossimo, stagione che dura almeno dall’inizio della pandemia, il ricorso massiccio ai contratti a termine da parte delle imprese – in aprile, secondo l’Istat, sono stati più di 3 milioni, mai così tanti dal 1977 – ha certamente una sua spiegazione: e non è un caso che perfino i grillini abbiano dovuto accettare, per la forza dei fatti, la sospensione del cosiddetto Decreto Dignità che aveva come obiettivo quello di ridurli, se non di bloccarli.

Il nodo vero, però, come anche nel caso dell’inflazione rispetto ai salari, è che il boom del lavoro a tempo determinato dovrebbe spingere a interrogarsi strutturalmente su come eliminare le forme precarizzanti (e, spesso, illecite) di attività lavorativa e su come garantire, invece, le tutele di una flessibilità sostenibile economicamente e socialmente.

È del tutto evidente che va contrastata, con regole e controlli più stringenti, la precarietà di chi lavora in nero, delle finte partite Iva, degli appalti e sub-appalti fittizi di lavoro, dei part-time involontari. Ma, dall’altra parte, vanno resi più costosi i contratti a termine veri, non a vantaggio dello Stato, come accade oggi con i contributi aggiuntivi da versare all’Inps, ma con un surplus di retribuzione, adeguatamente detassato, a beneficio del lavoratore e con una contribuzione integrativa da destinare alla formazione e all’aggiornamento delle competenze del lavoratore stesso. Cosicché, da un lato, l’impresa sarà spinta a utilizzare la formula in maniera più organica e funzionale allo scopo e, dall’altro, il lavoratore potrà contare su uno stipendio più elevato e sarà sempre più "occupabile", potendo fare affidamento su una crescente formazione da spendere nel mercato del lavoro per nuove opportunità, magari a tempo indeterminato, sempre che a quel punto gli convenga.

Altre soluzioni dirigistiche (con vincoli e paletti calati ideologicamente per decreto) si sono dimostrate controproducenti e, anzi, hanno favorito il ricorso surrettizio alle forme più precarizzanti e meno tutelate. Né vale invocare numeri e modelli stranieri come quello spagnolo o inglese o tedesco: licenziare un occupato assunto a tempo indeterminato è, in Spagna e Gran Bretagna, cento volte più facile e altrettante meno costoso per l’impresa che in Italia, anche dopo la sterilizzazione dell’articolo 18.

Il che non dovrebbe essere un risultato a cui tendere.