Martedì 23 Aprile 2024

La bara di Pablito in spalla ai ragazzi dell’82 "Ora ti allenerai nella Coverciano dei cieli"

Vicenza, l’abbraccio degli altri azzurri per l’addio al campione del mondo. Duomo gremito, cori da stadio all’uscita del feretro. Il dolore di Cabrini: "Non ti lascio andare via". Altobelli: "Avremmo voluto fargli vincere l’ultima partita". E il pianto di Baggio

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di Leo Turrini

E per un attimo ti sembra di vederli. Anche loro mischiati alla folla, sotto un cielo triste. E invece Enzo Bearzot e Gaetano Scirea lo stanno aspettando, Pablito. Lassù. È un congedo che non si sottrae alla malinconia di ogni funerale. Eppure, c’è qualcosa di più. In fondo Paolo Rossi ha smesso di tirare calci al pallone oltre trent’anni fa. In fondo, ormai almeno due generazioni di italiani non lo hanno mai visto giocare dal vivo. Ma quando sei stato un campione vero e una persona perbene, ecco che scatta il felice cortocircuito della memoria. Rossi non è mai andato via dalla coscienza popolare perché chi ha avuto la fortuna di esserci ha alimentato il ricordo raccontando di Pablito e degli Azzurri che fecero l’impresa. Era il 1982 e la grande bellezza di quei momenti di gioia collettiva si espande ancora.

Lo capisci scrutando le facce dei compagni di allora (quei ragazzi dell’82 che ieri hanno portato in spalla la bara di Rossi). Titolari e riserve. Collovati e Tardelli. Oriali e Antognoni. Bergomi e Causio. Massaro e Dossena. Galli e Baresi. Il tempo ha segnato anche loro, ma stavolta la ruga è nell’anima. Dice la sua riserva in azzurro, Spillo Altobelli: "Lui ci fece vincere quel mondiale, noi tutti avremmo voluto fargli vincere quest’ultima partita, ma non era possibile". E poi ci sono le parole di Antonio Cabrini, che con lui esplose in Nazionale in Argentina nel 1978 e che con lui divideva la camera nella Spagna del miracolo.

È un saluto da fratello a fratello: "Pensavo avremmo camminato ancora a lungo assieme, quello che sono lo debbo a te". Forse è vero che nessuno mai muore veramente fin quando ci sarà qualcuno in grado di ricordarlo. Non vale solo per i figli e per la moglie Federica, che ha scelto Vicenza per l’addio, sapendo quanto forte fosse il legame tra l’uomo della sua vita e la città. Non vale solo per i compagni dei giorni gloriosi. Vale per la gente comune, per tutti noi. Centinaia e centinaia di persone. Sussurri e grida da stadio. La sobrietà di una Italia di provincia che si specchiava nell’idolo timido, nel personaggio mai sopra le righe che ora si allenerà nella "Coverciano dei cieli", come ha detto il prete nell’omelia funebre

Simonetta, la prima moglie, la compagna della giovinezza, ha rubato all’oblio un frammento bellissimo: "La notte del trionfo al Bernabeu, l’11 luglio del 1982, io ero incinta. Lui andò in tv e disse: è un anno speciale per me, sta per nascere il mio primogenito e poi ho anche vinto il mondiale". Ah, Pablito! Più sistemiamo i tasselli nel mosaico della memoria e meglio ci rendiamo conto della tua semplice grandezza. Tra l’altro, una delle tante facce sperse tra la folla del funerale ci rammenta un altro debito che abbiamo con te: Roberto Baggio, il poeta del pallone, presente al congedo, è diventato calciatore guardandoti giocare. A Vicenza, la città del cuore.