L’opportunità smart working non diventi alibi

Se tra i lasciti della pandemia da Covid-19 annoveriamo il lavoro da remoto o come lo abbiamo chiamato lo “smart working”, rischiamo ancora una volta di non imparare niente e di sprecare l’ennesima “crisi” che ci ha portato obtorto collo a introdurre qualche flessibilità e innovazione in più. L’ultimo intervento in materia, dopo la polemica tra “rientristi” e sostenitori accaniti dello strumento, prevede, oltre alla istituzione di un Osservatorio e alla previsione di piani (cosiddetti Pola), anche una percentuale del 50% di personale in lavoro agile fino al 31 dicembre 2020 e del 60% per il futuro, in presenza dei Piani organizzativi del lavoro agile.

Parlare, però, di strumenti di flessibilità di organizzazione del lavoro in termini percentuali è seguire una logica burocratica per adempimenti per qualcosa che dovrebbe avere a monte una valutazione organizzativa e una scelta datoriale ponderata rispetto ai processi e alle competenze.

Ricordiamo, infatti, infatti che lo smart working è stato adottato, causa pandemia, per giustificare il distanziamento fisico dei dipendenti pubblici, con esclusione di quelli chiamati a svolgere funzioni di emergenza (sanità, forze dell’ordine e servizi essenziali). Di fatto è stato un “telelavoro” imposto, con alcune deroghe importanti (strumentazione, accordo individuale o programmazione) e con un “packaging” in lingua inglese.

Con l’avvio del meccanismo, però, è emerso quello che tutti sanno e che non si dice: che vi è nella PA una parte del personale non facilmente impiegabile e utilizzabile. Per almeno due motivi: da un lato per la pigrizia del datore di lavoro pubblico per il quale il personale è una risorsa data su cui soffermarsi solo all’atto del concorso e al momento del pensionamento (fatta salva qualche mobilità); dall’altro perché le attività con basse competenze in parte si sono ridotte, scomparse, assorbite in altre attività o esternalizzate. Senza che, in quest’ultimo caso, nessuno si sia preoccupato di attivare percorsi di reskilling o upskilling. Oltre al fatto che vi sono attività telelavorabili e altre non telelavorabili, le quali forse potrebbero essere oggetto di un processo di innovazione.

Dunque, solo con una riflessione che si traduca in piani obbligatori di riorganizzazione e revisione dei processi e una programmazione delle attività per fasi e obiettivi possiamo parlare di introdurre in maniera fisiologica e seria il lavoro agile e il telelavoro nonché di utilizzare al meglio le altre forme di flessibilità previste dalla contrattazione collettiva.

Non basta. Come hanno dimostrato le buone pratiche in materia di lavoro agile, occorre dotarsi  di piattaforme che consentano di accedere ad archivi, alla documentazione utile, di aggiornarsi, di protocollare o di lavorare in team. Mentre sono pochi ancora i dirigenti che sanno programmare il lavoro dei propri collaboratori.

E allora, per evitare che i dipendenti pubblici vengano tacciati di essere i soliti fannulloni e vacanzieri è importante che il loro lavoro venga organizzato da un buon datore di lavoro, che il settore pubblico non è mai stato. La percentuale di lavoro agile sarà la risultanza di tutto questo, potendo così migliorare la produttività e ridurre i costi per spazi e postazioni di lavoro. Non il contrario. Perché così saremmo alle solite: si decide senza conoscere e senza programmare, con buona pace di Luigi Einaudi e discepoli.

* Advisor PA