Giovedì 18 Aprile 2024

L’insostenibile nostalgia della normalità

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Roberto

Pazzi

Se sette italiani su dieci rimpiangono la normalità ante virus, corro a iscrivermi fra le loro file vincendo la naturale renitenza alla leva in massa delle maggioranze. La penso infatti come Proust: la felicità consiste nel ripetersi delle abitudini, perché somigliano all’eternità. Quanto mi manca la dolce circolarità della vita che assaporavo col caffè al bar sotto casa, dove non posso più sedermi come prima a recitare “la preghiera laica del mattino”, ad aprire e leggere cioè il mio giornale. Come mi manca, legittimato dal suo sorriso, il saluto della più bella delle bariste della città, con la sua tenera domanda "Il solito macchiato, professore?". Perché in quell’aggettivo così sottotono, solito, ora si nasconde una cifra insolita della felicità: "I veri paradisi sono quelli perduti".

Tutto si colora della nostalgia in questi giorni così sospesi, derubati della libertà e degli amici da questa versione aggiornata della peste. Perché la pandemia ha restaurato lo sguardo innocente della prima volta, prima che le cose iniziassero a ripetersi. E così ha fatto il miracolo di farmi amare anche le cose che meno amavo come il festival di Sanremo, come i vari palii e le feste paesane che facevano dire a Leopardi che gli italiani vivono per fare baracca tutta l’anno. Ma se queste pecorecce ritualità compongono l’armonia sacrosanta della normalità, ben tornino a farci sentire anche troppo umani!