Mercoledì 17 Aprile 2024

"L’haka è storia. E non si vende". Gli All Blacks placcano i fondi Usa

Un gruppo di speculatori americani ha offerto 276 milioni per i diritti della danza maori dei rugbisti. I giocatori neozelandesi fanno muro: "Il nostro impegno per il Paese e le tradizioni non ha prezzo"

I giocatori della nazionale neozelandese di rugby eseguono la 'haka' prima di una partita

I giocatori della nazionale neozelandese di rugby eseguono la 'haka' prima di una partita

"Batti le mani contro le cosce. Sbuffa col petto. Piega le ginocchia e pesta i piedi più forte che puoi". Poi urla in faccia al tuo avversario – anche se non lo vedi – che la tua storia non è in vendita. E che quella danza prima di ogni partita è più di un semplice rito, e non ha prezzo. Nella Nuova Zelanda che ha sconfitto il Covid, adesso non si parla quasi d’altro. La haka, la danza dei rugbisti simbolo di questo posto agli antipodi da noi, trattata come una merce, con tanto di speculatori affamati desiderosi di accaparrarsene i diritti, come una canzonetta qualsiasi.

Andiamo con ordine, giusto per chiarire che sbaglia chi pensa che ’sia solo sport’. La haka è la danza del popolo maori con cui i giocatori della nazionale (pardon, delle nazionali: la fanno anche le donne) di rugby, i mitici All Blacks, lanciano dalla fine dell’Ottocento la sfida agli avversari. Con gesti da guerrieri che cantano appartenenza e tradizioni. Ora, proprio perché il Covid è stato sconfitto ma l’economia non si è ancora ripresa del tutto, anche in ambito sportivo, la federazione neozelandese di rugby (Nzrfu) sta valutando la possibilità di vendere almeno il 15% dei suoi diritti commerciali, per avere liquidità immediata. La Nzrfu ha perso circa 45 milioni nel 2020 e quindi i soldi servono eccome. Le offerte sono arrivate quasi subito e tra i più scatenati c’è il fondo statunitense Silver Lake. Che valuta gli All Blacks crica 2 miliardi di dollari, e quindi l’offerta per il 15% dei diritti commerciali, tra i quali Silver Lake vorrebbe includere proprio la haka, è 276 milioni.

Ed ecco che qui sono scesi – è il caso di dirlo – in campo, agguerriti come neanche in una finale di Coppa del Mondo o in un Tre Nazioni contro Sudafrica e Australia, i giocatori e le giocatrici neozelandesi. Che placcano sul nascere ogni velleità di speculare su un rito di popolo assurto a simbolo nazionale. Perché sul campo da rugby (non in quelli di calcio o cricket: lì i maori sono pochini...) tutta la Nuova Zelanda si identifica con un passato lontano, forse pure mitizzato, come dicono molti studiosi delle culture polinesiane. Ma la haka, che sia originale o 'moderna', non si tocca: "Riteniamo di dovervi comunicare che non concederemo la nostra approvazione alla vendita di quote – scrivono gli All Blacks –. La decisione è stata presa dopo un’attenta valutazione da parte del nostro consiglio. I giocatori neozelandesi giocano per se stessi, per le loro famiglie e per il loro Paese con un impegno nei confronti della vittoria richiesto dalla storia ed ereditato dalla tradizione. I tifosi comprendono questo impegno, e ci riconoscono l’essenza di quello che può significare essere neozelandesi".

Altro che sport. Qui in gioco sono i sentimenti e il senso, antropologico, di comunità e cultura: "È questo che stiamo vendendo: 129 anni di storia, talento, risultati che hanno portato a successi straordinari, raggiunti perché siamo quello che siamo. Nessun altro l’ha fatto. Nessun altro avrebbe potuto farlo".

D’altra parte, già nel 2000 alcuni maori avevano chiesto che una percentuale di profitti che l’Adidas e la Nzrfu ottenevano grazie ai diritti tv degli All Blacks venisse indirizzata al proprio popolo che, secondo loro, dovrebbe essere considerato detentore dei diritti di copyright sull’haka. La risposta fu negativa. Vent’anni dopo, sarà la Nzrfu a non andare in meta.